mostra personale di pittura
TOPOGRAFIE DELL’ANIMA
Pittura e vocazione poetica di Francesco Palmieri
di
Enzo Papa
Tutti sanno che la bontà di un’opera d’arte si misura anche dalla sua capacità di resistere alle incomprensioni, alle remore e alle antipatie dei contemporanei, e di traversare la storia del gusto, portando intatti dentro di sé gli elementi della propria vitalità. Ma se la parola non si prestasse ai peggiori equivoci, diremmo che la caratteristica della pittura di Francesco Palmieri esula da quanto ho detto perché possiede una qualità di stile immediatamente riconoscibile e convincente che reagisce alla formula, un po’ secca, della semplice “piacevolezza”; voglio dire che la sua produzione artistica, frutto di intelligenza e di eleganza, non abbia poi tante difficoltà, tanti impedimenti o antipatie a sottrarsi alle inimicizie del tempo e ad essere accolta, riconosciuta e compresa da noi.
Ecco, insieme ad una sorta di più che evidente resurrezione dello spirito metafisico in termini mistici, a me sembra che sia l’ eleganza nel suo più ampio significato filosofico ed estetico la caratteristica che salta subito agli occhi già al primo impatto con queste opere.
Gli elementi dei suoi quadri sono tutti di ispirazione naturalistica e compongono forme che sono, ciascuna di per sé, tradizionali: le nuvole sono nuvole, case le case, montagne le montagne, alberi gli alberi, figure umane le figure umane, tutti riconoscibili come tali per chi veda le cose con l’occhio della tradizione. Ma l’occhio, che diremmo scaltrito, di chi ha buona dimestichezza con la pittura, vedrà e capirà che codesti elementi sono tuttavia prorompenti di una carica poetica commovente, di una grazia che va oltre la loro semplice apparenza, aprendosi verso il mistero di un mondo prodigioso.
I paesaggi dipinti da Palmieri, estranei ad ogni abusato cliché che il paesaggismo tradizionale aveva raggelato in un canone inerte, cantano la solitudine, l’assenza, il silenzio, la religiosa vertigine del tempo. Sono paesaggi montani dove il mare non si vede neanche in lontananza, probabilmente ispirati dalle aspre rocce e dai monoliti dell’Aspromonte a lui caro, dalle impervie solitudini di quelle vallate, di quelle fiumare, di quegli spazi di vertiginosa e profonda bellezza vissuti e amati nella Locride della sua fanciullezza e adolescenza. E in quegli spazi così aperti e luminosi verrebbe di immergersi, di tuffarsi, come egli sembra suggerirci in quel quadro che ha titolo Si vola, in cui, come uccelli felici ci si libra in volo metafisico dell’anima e dello spirito, volo che però tira la punta del mantello al leopardiano naufragare nell’immensità dello spazio infinito.
Dicevo dell’assenza nella sua opera del mare, di quel mare della splendida costa ionica su cui si affaccia il sereno lungomare di Locri, che pure è parte integrante delle caratteristiche naturali della Locride e certamente anche teatro dell’età felice di Palmieri. Ma conosco solo un quadro da lui dipinto dov’è raffigurato un mare tempestoso, che credo non gli appartenga, che ha per titolo Odissea in bianchina Fiat: un moderno Ulisse alla guida della classica piccola vettura in balìa di gigantesche onde e in preda alle fiamme, con un incombente mostro marino in primo piano e sul fondo un cielo plumbeo rigato da fulmini. Scena inquietante del tutto improbabile e tragica, enigmatica, probabilmente onirica, da incubo, che forse pretenderebbe una lettura del profondo, come se dal lettino dell’analista l’autore avesse voluto raccontarci una storia, come in certi quadri di Dalì o di Savinio.
Ma è l’unica, a quanto io ne sappia, di così forte impatto surreale, a fare da contraltare non solo alla serenità dei paesaggi, ma anche alla serie Vita tra le nuvole, dove invece il mistero dell’esistere guizza in splendida contraddizione e si dipana in immagini dal sapore di cantafavola e dove il grumo metafisico appare sciolto se non eluso. In queste immagini l’ Icaro moderno e contemporaneo di Palmieri non precipita, come nel mito, in un Egeo o abisso che sia, ma al contrario si salva dal precipizio esistenziale o appeso a un filo tirato su in una non evanescente nuvola o s’impegna arrampicandosi su una provvidenziale scala verso una nuvola dove l’attende una solidale salvezza. Non è forse questo un messaggio di profonda speranza e di umana solidarietà che Palmieri ci invia? E non ce lo dice in termini altamente poetici?
Ma, oltre che cantante lirico, un aspetto, questo, che dilata ulteriormente la sua personalità artistica, Palmieri è un pittore che ripudia le fragorose fanfare che risuonano nel cielo dell’arte contemporanea e producono inutili e dannosi rumori anziché armoniose melodie. Gli ossessivi garbugli e le povere contorsioni di cui s’ inebria la furbizia di tanti pseudoartisti gravidi solo di vento, non fanno parte del suo vocabolario e della sua visione dell’arte. Egli possiede un’assoluta padronanza dei mezzi espressivi appresi nelle scuole romane e nelle sale dei musei, a dispetto di chi pretende di fare opera d’arte senz’ essere capace neppure di saper temperare una matita, come amava dire De Chirico, che di Palmieri può essere considerato referente. Chiunque, osservando le sue opere, comprende facilmente che la sua pennellata è armoniosa e sapiente, direi anche preziosa, e le tonalità del colore, sottoposto a dolcissime sevizie, si fondono in un contesto pittorico equilibrato e armonico. C’è insomma, nei suoi quadri, il mistico sigillo di un’anima.
Siracusa, marzo 2018