Parlare di diritti dei Popoli Indigeni, oggi, è ancora un tabù. Perché?
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“Essi sono il classico elefante in una stanza”. Intervista con la attivista Raffaella Milandri
Articolo di Giovanni Rossi
In questa epoca di globalizzazione galoppante, la diversità culturale, espressa nelle usanze, nel linguaggio, nellamusica e altri aspetti tradizionali diventa più che mai un prezioso patrimoniodell’umanità. Ma quello dei Popoli Indigeni è un argomento ancora poco discussoe spesso ignorato. Ne parliamo in un’intervista con Raffaella Milandri, giornalista,scrittrice e antropologa, fondatrice della Mauna Kea Edizioni, che sidedica da vent’anni alla difesa dei Popoli Indigeni ed è studiosa inparticolare dei Nativi Americani. Non solo: nel 2010 è stata adottata dallafamiglia Black Eagle della Crow Nation, quindi, oltre a essere un’esperta eappassionata, è a pieno titolo un membrodella comunità dei Nativi Americani. Esordisce così:
«IPopoli Indigeni, secondo gli ultimidati della World Bank, sono 476 milionidi persone nel mondo. Sono una presenza che è il classico “elefante nella stanza”, elephant in theroom: una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata ominimizzata. Un problema molto noto ma di cui nessuno vuole discutere».
Cosa ti ha colpito maggiormente dei PopoliIndigeni?
«Confesso la molla per conoscerli: sin dabambina, sognavo di incontrare i Navajo di cui leggevo nel mitico Tex dellaBonelli. Quando li ho visitati la prima volta, a Window Rock, sono rimastastraordinariamente colpita dalla loro “diversità” in termini di valori e diapproccio alla vita. Molto lontani dal pragmatismo occidentale, da quel nostro inquadramento basato sull’avere e non sull’essere, su un’identitàincentrata sul lavoro e sul raggiungimento di obiettivi spesso stereotipati esopravvalutati. Dopo i Navajo, ho incontrato altri popoli nativi americani, epoi i Bakà del Camerun, i San del Kalahari, i Rabari del Gujarat, i Bondadell’Orissa, il popolo tibetano, gli aborigeni australiani e tanti altri. NeiPopoli Indigeni ho ritrovato quella preziosa “diversità” culturale e sociale,diversa da noi, ma con un’estrema assonanza tra di loro. Questo mi ha spinto aviaggiare, studiare, approfondire. E a vedere il mondo in modo differente.Negli ultimi anni mi sono poi concentrata sui Nativi Americani, che hanno nellaloro storia e resistenza molto da insegnare, soprattutto come specchio dellanostra civiltà occidentale. Oggi non abbiamo a che fare con i Popoli Indigenioriginari, ma con quelli che convivono al nostro fianco, subendone le conseguenze.Dapprima vi è stato il colonialismo, cui è seguito il neocolonialismo. Oggi,per molti popoli la grande sfida è convivere con i nostri sistemi invasivi – dall’estrazionedi combustibili fossili, alla deforestazione, alle coltivazioni intensive, alleespropriazioni di territori, alla globalizzazione, per citarne solo alcuni – esopravvivere, mantenendo la propriacultura e identità».
Cosa hanno in comune i PopoliIndigeni?
«Cercherò di esserebreve e di attenermi ad alcuni concetti essenziali. Innanzitutto “indigeni”vuol dire che sono pressoché da sempre presenti nello stesso territorio,adattandosi, ottimizzando l’utilizzo delle risorse ivi presenti eidentificandosi nell’ambiente stesso, in uno stile di vita quasi simbiotico. Lecomunità indigene in buona parte sono definite come “cacciatori-raccoglitori”,comunità che non praticano l’agricoltura, ma questo non è esatto, basti pensarealle civiltà precolombiane e alle loro coltivazioni. Nei popoli nativi la caratteristicapredominante è il rispetto, e quindi il “non-sfruttamento”esasperato delle risorse del territorio, in cui noi occidentali siamo maestri. Con la conseguenza, confrontati allanostra società, di alcuni importanti vantaggi: niente sovrappopolazione;conservazione di ecosistemi; abilità di sopravvivenza senza la schiavitùtecnologica. Mi ha colpito di questi Popoli l’attaccamento all’identità etradizioni; la tenacia e la determinazione con cui cercano di salvaguardare laloro cultura e trasmetterla alle giovani generazioni — oggi così esposte albombardamento mediatico del mondo occidentale e all’omologazione culturaledella globalizzazione. La cosa peggiore che hanno in comune è una storia di violenza,abusi e soprusi da parte dei “conquistatori”, e il continuo assoggettamentoforzato alla cultura dominante. Sanno come sopravvivere nel deserto, a elevatealtitudini, nella foresta tropicale e nei ghiacci, ma molte comunità sono già statecompletamente cancellate dall’arrivo degli Europei».
Perché sui media si parla cosìpoco di Popoli Indigeni e dei loro diritti?
«Innanzitutto quibisogna risalire al peccato originale e citare la storia e gli inizi: il colonialismo europeo, con l’appoggiodella Chiesa di Roma, alla conquista delle “terre di nessuno”, terrae nullius,sancito e “santificato” con bolle papali come la Bolla Inter Caetera e altre.Le potenze del vecchio continente sguinzagliarono navi e “conquistatori” intutti i continenti, con la scusa di cristianizzare i popoli selvaggi ma, inrealtà, alla ricerca di risorse, territori e ricchezze di cui appropriarsi. Bartolomé de Las Casas, un vescovocattolico spagnolo, si schierò dalla parte dei Nativi Americani e riportò,nelle sue cronache del Cinquecento, una ferocia inusitata contro gli indigeniin questa “missione” degli Europei. La geopoliticamondiale attuale è stata definita allora, grazie in primis alle bolle papalidi cui molte associazioni native hanno chiesto l’abolizione. Parlare di diritti dei Popoli Indigeni va aminacciare gli interessi di molti Paesi europei e delle loro “propaggini” natedal colonialismo, immensi territori come, ad esempio, Canada, Stati Uniti eAustralia. Pur se negli ultimi decenni se ne parla più apertamente, laestromissione dei Popoli Indigeni dai libri di storia, di diritto e disovranità territoriale è un chiaro caso di censurae controllo politico, ideologico e morale. Riconoscere le proprie colpe,sdoganare i diritti originari di questi Popoli, indurrebbe all’enorme rischio di dover ridisegnare completamentela mappa geopolitica mondiale. Va da sé che i media stessi ne parlino conil contagocce, per non toccare un punto dolente, estremamente delicato permolti Governi. Il cosiddetto mondo occidentale soffre di un terribile etnocentrismo, motivato da un lato dauna sindrome di presunta superiorità, dall’altro da una continuata appropriazioneindebita di territori».
Negli ultimi anni abbiamoassistito a scuse epocali verso i Nativi del Canada e degli Stati Uniti, daparte di Papa Francesco e poi di Biden…
«Daparte di entrambi, si è trattato di scuse per il sistema delle scuole residenziali, che è statoimposto dai Governi e gestito in primis dalla Chiesa cattolica, e che haduramente colpito generazioni di Nativi con l’assimilazione forzata e un tentativoviolento di cancellare la loro cultura. I giovani indigeni di Canada e StatiUniti sono stati costretti, dalla fine dell’Ottocento fino a quasi venti annifa, a lasciare le proprie famiglie e comunità, e gli è stato proibito di usarei loro nomi, parlare le loro lingue, praticare la loro religione, oltre asubire in molti casi documentati sevizie gravissime. Ne parlo dettagliatamentenella mia opera “ Le scuole residenzialiindiane. Le tombe senza nome e le scuse di Papa Francesco”. In questicasi, le scuse sono state funzionali al potere di chi le porge, e nonpossono essere un mero esercizio statale di “colpa performativa”. Come hannoscritto Mark Gibney ed Erik Roxstrom in TheStatus of State Apologies: “Lo Stato potente non solo decide se e quandosaranno fatte le scuse (o se saranno fornite delle ‘quasi scuse’), ma anche ilmodo in cui tutto ciò sarà eseguito”. In sostanza, le scuse non bastano, anzipossono costituire in sé una forma di violenza sulle vittime. L’aspettopositivo delle scuse è che, in particolare nel caso di quelle di PapaFrancesco, l’impatto mediatico a livello mondiale è stato un ottimo strumentodi divulgazione di verità che sono state taciute a lungo».
Questi Popoli sono protettidalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni?
«Questoè un punto molto spinoso. La Dichiarazionedei diritti dei Popoli Indigeni, UNDRIP,è stata adottata in tempi recenti dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite,durante la sua 62ª sessione in New York, il 13 settembre 2007. Votarono afavore 143 stati, 4 votarono contro(non a caso, Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti, nati come coloniedell'Impero britannico e a maggioranza di popolazione non indigena); 11 statisi astennero (Azerbaijan, Bangladesh, Bhutan, Burundi, Colombia, Georgia,Kenya, Nigeria, Federazione Russa, Samoa e Ucraina) e 34 non furono presenti.In seguito i 4 stati a sfavore cambiarono voto, pur se molte critiche eopposizioni alla Dichiarazioni vanno avanti tuttora. Tra i diritti collettiviche la Dichiarazione proclama, a favore delle popolazioni autoctone, vi èquello all’autodeterminazione, a nonessere espulsi dai loro territori e a godere delle risorse naturali situate sudi esse. Oggi la Dichiarazione è lo strumento internazionale più completo suidiritti dei Popoli Indigeni. Essa stabilisce un quadro universale di standardminimi per la sopravvivenza, la dignità e il benessere dei Popoli Indigeni del mondo. Ma purtroppo non è unostrumento giuridicamente vincolante ai sensi del diritto internazionale:stabilisce sono uno standard che “dovrebbe” essere seguito. Come dicevamoprima: riconoscere i diritti dei Popoli Indigeni ai loro territoricostituirebbe una “spesa” troppo ingente per molti Stati.
Unaltro strumento importante è l’UN Genocide Convention, la Convenzione delle Nazioni Unite per la Prevenzione e la Punizione delCrimini di Genocidio, redatta nel 1948: è un trattato internazionale chemette al bando il genocidio e obbliga gli Stati parte a implementarel'applicazione di tale divieto. Lo hanno sottoscritto finora 154 stati e 40 nonancora; tra gli stati che non lo hanno ancora sottoscritto troviamo alcuninella stessa “lista nera” dell’UNDRIP come il Bhutan, il Kenya e Samoa.L’ultima sottoscrizione alla Convenzione è quella della Repubblica Dominicananel 2022. E’ interessante notare che questa Convenzione fu approvata negliStati Uniti solo nel 1988 da Ronald Reagan, nonostante le forti opposizioni. Siconsiderava a rischio la sovranità statunitense. L’accusa di genocidio non è un pianto romantico diliberali e buonisti. Si adatta perfettamente alla situazione vissuta dai NativiAmericani, ma anche ad altri Popoli Indigeni. Esiste poi anche la ILO 169, una convenzione dell’InternationalLabour Organisation, molto importante, il cui obiettivo centrale è proteggere idiritti umani dei Popoli Indigeni e riconoscere “le aspirazioni di questipopoli a esercitare il controllo sulle proprie istituzioni, sui propri modi divita e sullo sviluppo economico e a mantenere e sviluppare le proprie identità,lingue e religioni, nel quadro degli Stati in cui vivono”. Qui le adesioni sonostate a oggi solo di ventiquattro Stati, di cui la ultima la Germania, nel2021. Una convenzione ignorata dalla maggior parte dei Governi. Organizzai unapetizione per l’adesione dell’Italia alla ILO 169 circa dieci anni fa, ma essa,con allegata raccolta firme, inviata al Governo e al Papa, non ottenne alcunarisposta».
Linkal testo integrale dell’UNDRIP: https://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf
Linkal testo dell’UN Genocide Convention:
https://www.un.org/en/genocideprevention/genocide-convention.shtml
Linkalla lista di sottoscrizioni della ILO 169:
https://normlex.ilo.org/dyn/nrmlx_en/f?p=NORMLEXPUB:11300:0::NO::P11300_INSTRUMENT_ID:312314
Qual è la situazione che hai visto dipersona dei Popoli Indigeni e dei Nativi Americani oggi?
«Devodi nuovo sottolineare che le problematiche dei Popoli Indigeni sono ignoratedalla maggior parte della popolazione mondiale, proprio per i motivi che dicevoprima: da un lato i media ne parlano assai poco, dall’altro i Governi che sonopiù coinvolti temono grandemente diperdere terre e diritti su ciò che è stato sottratto ai Popoli Indigeni neisecoli scorsi e che viene sottratto anche oggi. In alcuni Paesi, come adesempio in Africa e in Asia, molte situazioni sono drammatiche e ho potutoassistere a delle vere e proprietragedie. I miei appelli sono rimasti perlopiù inascoltati. I NativiAmericani, invece, oggi sono negli Stati Uniti oltre nove milioni e in Canadaoltre tre milioni: sono molto attivi, lottano per i propri diritti, hannocreato associazioni e università native, e pur se la loro posizione ha ancoratante problematiche da risolvere, hanno ottenuto leggi che li aiutano a proteggerele loro tradizioni, religioni e linguaggi. Molta la strada da fare, ma sonodavvero un grande esempio di resistenza. Sono in contatto con diversi attivistinativi, e la unione d’intenti, la determinazione e la collaborazione tra iconsigli tribali e le comunità sono migliori che in tante comunità occidentali».
Ultimissima domanda: nei tuoi viaggiper ricerche sui diritti dei Popoli Indigeni hai corso dei rischi?
«Assolutamente sì. Purtroppo in alcuniPaesi come il Camerun, il Botswana, l’India e altri mi sono trovata a indagaresu violazione dei diritti umani dei Popoli Indigeni a carico di multinazionalicon interessi di sfruttamento minerarioe forestale. In quei casi, viaggiando in incognito e senza coperturemediatiche, in luoghi ai confini del mondo, si rischia di scomparire – o meglio di essere fatti scomparire – in unattimo. Ho avuto incontri con attivisti indigeni in molte occasioni e intutti i continenti. Ricorderò sempre quando, dopo aver filmato una intervistacon un leader tribale dell’Orissa, minacciato di morte, tornai a casa epubblicai un suo appello alla comunità internazionale. Dopo pochissimi giornifu arrestato. Io ero in Italia sana e salva,mentre lui si trovava in pericolo.Molti suoi compagni attivisti erano già stati “eliminati”. Ho corso moltipericoli, ma quando si agisce per una causa in cui si crede, nulla deverimanere intentato. Si tratta di vite umane di persone che non appartengono almondo dei compromessi».
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