Marina Kaminsky
artista
La ricerca artistica è un indagine psicologica, mistica, arcaica e spirituale. Essere un’artista non è un lavoro è uno stile di vita. Solo apparentemente facile. Le mie opere è un diario di viaggio interiore, un viaggio tortuoso, accompagnato da identità fluide, onnipresente immaginazione e le visioni del domani. Un viaggio solitario dove la solitudine è l’oggetto stesso delle opere. Un mondo senza persone, pronto per essere vissuto, ma ancora vuoto.
Il quadro non è mai solo un quadro, è la storia dell’artista che lo ha portato alla sua realizzazione. Dancing with myself. La solitudine è il paradigma delle assenze perché non ho mai chiesto il permesso a nessuno per inseguire i miei sogni. Il mio viaggio è un percorso lucido, dove ogni tappa è scandita da attimi che squarciano il caos per fermare l’attimo e stenderlo come infinito.
Con la serie IMAGINARY CITY il colore rimane sempre una costante della mia identità artistica ma perde la centralità a favore del concetto che attraverso la destrutturazione dell’oggetto passa ai panorami immaginari in cui nascondersi e accomodarsi per guardare il mondo, ascoltare il monologo invasivo e rumoroso dell’umanità, osservare la megalomania dell’essere umano ma anche per ascoltare le melodie dei colori del mondo che si intrecciano con l’energia dell’anima.
La mia città immaginaria, la mia METROPOLI è anche una sintesi dei miei viaggi non solo immaginari. Le scale che ho scalato, le panchine dove ho riposato. Il racconto di scale è opposto a quello delle panchine, perché la panchina invita ad accomodarsi, pensare, contemplare, mentre le scale, sia a scendere che a salire ti obbligano a muoverti per non intralciare, per non dare fastidio, per essere al passo.
La panchina ti si offre come un subaffitto e di giorno ha una dimensione accogliente. Ha i suoi orari. La mattina ci sono le mamme con i bambini, la gente che ci si siede per riposare, per stendere le gambe ma nella notte passa ad un’altra dimensione. Spaventosa, sinistra, pericolosa, la panchina degli incubi, oscura e tremenda. L’assenza delle persone è come un’invito ad accomodarsi, perché quella panchina esiste solo per te, diventa CASA tua.
La panchina è un preludio ad un cosmo di conflitti che da una parte non si augura al peggior nemico ma dall’altra si augura che almeno una volta nella vita una persona abbracci questo stormo di pensieri per distillarne l’essenza.
La panchina è anche un concetto sociale perché con tutte le guerre che ci sono attorno adesso, oggi, tante persone che perdono la casa e non hanno altre opportunità, la panchina è l’unico posto di “conforto”. E una panchina a Gerusalemme ha un senso opposto a quello di una panchina a Cannes.
La panchina sembra un oggetto statico ma non lo è. Dal momento in cui tu ti siedi, diventa mobile, fa parte del tuo underground, del tuo viaggio interiore ed è intrinseca ai tuoi pensieri, al tuo stile di vita. Viaggia con te.
Il mondo ci offre pochissimi possibilità ma sulla panchina ci si può contare. Una panchina è un bene comune, chiunque può usufruirne...
L’Arte è la sublimazione delle risonanze interiori, il sale del Mondo e l’artista, senza alcuna possibilità di diventare “adulto” è il conduttore del dolore dell’umanità, a mio avviso mai per scelta.
Città grandi, città piccole, paesi e metropoli. Un susseguirsi di fotogrammi di vita percorsi in una visione personale ,come visti da un treno che corre rapido in luoghi senza nome. A volte il bello è stato nella corsa in sé, lampi di luce soffiati dal vento a cui correre dietro con la testa per aria , a guardare la tavolozza del cielo per dipingerci sopra le nuvole sgargianti delle mie emozioni. I miei blu, astrali cobalti o i rossi sensuali e fiammeggianti che si intersecano in spazi liquidi. A volte, invece, mi sono fermata, sono scesa dal treno e ho fermato i fotogrammi. Come adesso che sono arrivata qui, nella metropoli . Qui, dove tutto ha un senso solo nel movimento, incessante , 24 ore su 24, città che non dormono mai , che producono sempre e sono sempre senza stelle sopra la testa. Parigi come Milano, Mosca o Gerusalemme e tutte le altre così uguali nella monotonia orizzontale del tempo , nell’assenza claustrofobica di spazio , nell’ indifferente promiscuità fisica tra gli umani. E’ qui che mi sono fermata per guardare meglio e più da vicino se esiste poesia dove non c’è tempo. E in quel momento mi è apparsa davanti la soluzione per fermarmi a pensare, “ tò, uno spazio per me ..”, una panchina. Era caldo, ero stanca , era Gerusalemme e quella panchina è apparsa come una fata morgana e si è materializzata come un oasi di conforto. Forse aspettava me, come tutti quelli che sono passati e l’hanno vista, e così mi sono seduta . Un senso di gratitudine immenso mi ha pervaso per quell’umile arredo urbano di legno stinto. Così ho pensato che meritava di essere ricordata e l’ho fotografata. E’ stata la mia prima panchina , il mio primo fotogramma in slow motion, in totale controtempo alla centrifuga metropolitana che spinge alla sincronizzazione gli individui, pena l’espulsione. Era ciò che più temevo, sedermi e sentirmi una spettatrice senza ruolo . Ma così non è stato, ero dentro e anch’io giravo con il mondo, ma non spingevo per farmi largo ,mi lasciavo portare. Le panchine parlano di tempo libero, di conversazione, di gioco, di amore, di riposo , di casa, di umanità. Ma le mie no. Le mie parlano di un’attesa , colte vuote , geometrie romantiche e funzionali , senza nessuno .In quel passaggio che avviene tra un ospite e un altro.
Quasi sospese e confuse nelle segmentate linee metropolitane che accelerano verso l’alto la spinta alla felicità, ecco che si elevano le scale. Un altro squarcio nella metropoli che implica una circolazione, un rallentamento, una disciplina civile , nel salire e nel scendere. La vita è fatta a scale, ma la realtà è di gradini dove non si può sostare per più dell’attimo che la corrente umana concede. Le scale non sono fatte per fermarsi , come per il sangue, il flusso deve circolare anche quando si arrampica o precipita fuori dai rettilinei. Non è solo la funzione ,quanto la ridefinizione architettonica dello spazio , che mi interessa esprimere. Sono le ombre che compongono, i chiaro scuri dei gradini, i materiali e i contesti che uniscono. Perché è vero che con le scale si arriva in alto , ma è anche vero che con le scale si fanno i ponti. IMAGINARY CITY
Formazione
Istituto d’Arte di Tallinn, Estonia.
Accademia delle Belle Arti Surikov di Mosca, Russia
La mia vita è stata un susseguirsi degli incontri importanti e fortunati. Dapprima, ancora in infanzia, ho scoperto di appartenere totalmente agli espressionisti. Otto Dix e Kandinsky in particolare. Mi perdevo e mi ritrovavo dentro le loro opere. Più tardi, c’è stato un periodo in cui seguivo tutte le mostre in giro per il mondo di Kandinsky e di Chagall. Dix lo conoscevo a memoria, ogni pennellata.
E poi arrivarono i miei maestri, quelli veri. Rimpiango Ernesto Treccani che mi ripeteva di non mollare, che sono in possesso di un dono del quale NON sono proprietaria unica, che è un peccato mortale non condividerlo con il mondo.
Un’altro grande maestro per me è stato Rodolfo Viola. Sono loro due che hanno partecipato alla mia crescita artistica e spirituale, rivelandomi la loro arte, i trucchi del mestiere, “giochi di prestigio”. Erano le mie guide nel complesso mondo dei colori e delle loro sfumature, nell’osare di sfidare l’accademia per trovare una mia identità, una dimensione unica e soprattutto nel credere in me stessa.
Tematiche
Marina Kaminsky ha camminato a lungo per formulare la domanda giusta, girovagando dentro il caos che caratterizza la realtà contemporanea per mettere ordine nella sua mente e dare spazio alla fantasia.
“Immaginary city” nasce così : concepita a Milano, coltivata a Savona , partorita a Gerusalemme e poi di ritorno a Milano.
Poteva essere diversamente? No e le opere lo testimoniano in un percorso lucido , come un diario di viaggio, dove ogni tappa è scandita da attimi che squarciano il caos per fermare l’attimo e stenderlo come infinito.
Un mondo senza uomini , pronto per essere vissuto , ma ancora vuoto colto “ l’attimo prima” che la vita si apra.
Un mondo attraente , levigato, architettonico , ma fatto di scale, che si perdono all’infinito come nelle sezioni di Piranesi , perse nelle loro geometrie insensibili allo sforzo umano.
Scale da “ scalare”, da affrontare prendendo fiato per arrivare in cima incolumi . La vita è una lotta, non c’è carro del vincitore su cui salire, bisogna farcela da sé , soprattutto se parti dal basso.
E soprattutto se vivi in una metropoli.
Un’amara verità paludata di glamour da il via a “ Immaginary City” , un’ invito a salire senza fermarsi, su per queste bellissime scale , senza fermarsi per non intralciare, per non soccombere , per farcela.
Ed è lì che nascono le prime opere , sul concetto di “ prova”, una prova che Marina Kaminsky coniuga ad una ricerca tecnica che esplora il digitale contaminandolo con i colori della memoria.
Una tecnica che filtra la sorgente e la impreziosisce con polveri e smalti per svelare la bellezza , il “ cosmos” che c’è nel caos, il bello che c’è nel brutto , la pace che c’è nella guerra.
E Gerusalemme è arrivata.
Vecchia metropoli che la sa lunga : divisa, contesa e dilaniata , ma anche un’oasi di pace e di ristoro per l’anima.
Kaminsky si perde nei dedali della città vecchia, sconfinando da una religione all’altra con l’indifferenza e l’entusiasmo dell’artista che guarda tutto e cerca il bello.
Ma a Gerusalemme trova non solo il bello, ma una risposta a una domanda : per che cosa è fatto un uomo? Per pensare.
Davanti ai monasteri, alle moschee e alle sinagoghe Kaminsky vede e fotografa panchine, di legno, di ferro, più o meno antiche , ferme lì per lo stesso principio : fermarsi per godere della natura, del passaggio umano e fantasticare, come Buddha seduto davanti ad un panorama.
Con” Immaginary City “ Marina Kaminsky abbandona la centralità del colore per affermare il concetto, che attraverso la destrutturazione dell’oggetto, suggerisce panorami immaginari in cui nascondersi o in cui trovare un posto e accomodarsi per guardare il mondo con benevola ironia.
Alessandro Baracco
Tecniche
Per esprimere il proprio talento non ci sono né limiti né regole. Utilizzo di tutto, l’elenco è lungo ed in continua evoluzione. Per creare qualsiasi cosa, in primis serve un’idea, poi per realizzarla tutto è lecito: biglietti del tram, le foglie degli alberi,
la polvere, la bresaola, un’arancia. L’Arte è ovunque!
Quotazione
Quotazione: 6.2
Premi
Biennale di Venezia 2011
XXI Triennale di Milano 2016
Biennale di Venezia 2017
Presidente di ADDA (Associazione Culturale Internazionale per la Difesa dei Diritti degli Artisti)
Bibliografia
Marina Kaminsky nasce il 25 giugno 1968 in Siberia, al seguito del padre, ufficiale dell’aeronautica militare sovietica. Nel 1984 Marina si trasferisce in Estonia, nella capitale Tallinn, dove frequenta l’Istituto d’Arte, per diplomarsi al completamento degli studi e coronare così il sogno di bambina creativa ed artisticamente estroversa. Continua ad approfondire i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Mosca, dove si perfeziona e inizia ad individuare un suo personale stile espressivo. Nel 1994 si traferisce a Milano che da allora è diventata la sua città d’Arte e di vita, con la giovane figlia Kristina. A Milano è possibile visitare il suo splendido atelier “M.K. in Blu”, definito dai milanesi e dalla stampa “un grido di colore”. Della sua carriera ed esperienza artistica Marina ci parlerà in questa chiacchierata che sarà anche un viaggio dentro la sua anima di artista e di pittrice
di indiscusso talento.