Cronistoria
La mia vita artistica
2008
La scultura La Scultura ed il Maestro Antonio Pepe
Se lo scultore, se tutti gli scultori dovessero parlare sull’essenziale nei riguardi dell’arte del levare, direbbero certamente che il loro modo di esprimersi ha come fondamento un alternarsi armonico di vuoto e di pieno.
Poi c’è qualcuno che, nella utilizzazione magistrale di questa alternanza, ne determina l’aspetto formale con modalità inedite e con effetti particolarmente efficaci.
Questo qualcuno, non ancora nominato, è Antonio Pepe, paganensis, ossia di Pagani, in Campania, che nell’espressività scultorea e nel movimento si rivela grande maestro.
Doppiamente maestro in quanto non solo definisce lo spazio, ma, quasi ammiccando, fa del vuoto un pieno.
In questo ludico ammiccare si sente quasi un “eccolo qua !”, un “Oì” , detto alla maniera napoletana.
Certo,nell’ordine della quantità di tempo impiegato per trarre dalla materia la forma scultorea, gli avvenimenti che, sequenzalmente, si succedono non hanno certamente le caratteristiche di una magica immediatezza.
E’ infatti un lavorio costante, attento, profondamente coinvolgente, che trasferisce dalla unità di mente e cuore l’energia necessaria per ottenere dalla fusione dell’acciaio il risultato pensato, studiosamente meditato e realizzato.
Perché, come tutti, o quasi tutti sappiamo, Antonio Pepe è maestro nell’uso, a fini artistici e creativi, della fiamma ossiacetilenica e della saldatura.
Ed, a proposito di questa necessaria precisazione, il vuoto della mia ignoranza è stato colmato dalle parole e dall’intervento chiarificatore del nostro Autore.
Avrei detto, sbagliando naturalmente, fiamma ossidrica ed adesso, invece, con opportuna precisione, parlo più propriamente di fiamma ossiacetilenica.
Tutto quanto è, come è facilmente comprensibile, un proemio al significato dell’opera di Antonio Pepe.
L’aspetto più profondo sta, per l’appunto, in una sorta di cognizione del dolore che trasferisce nell’acciaio, creativamente modellato, la tensione di un percorso che coinvolge una intera vita e ne plasma in maniera variegata i sentimenti.
E’ non è un caso che il nostro scultore abbia privilegiato e scelto l’acciaio come materia da trattare e formare.
La nascosta, e creativamente orientata distruttività, ha ceduto il posto ad una costruzione armoniosa, ricca ed artisticamente efficace in termini rappresentativi.
Si è cimentato Antonio Pepe con ciò che, per antonomasia, è il rappresentante simbolico della resistenza e della durezza.
Possiamo dire in una vera e propria competizione con la materia.
Come dire: “Se sottometto l’acciaio alle mie esigenze rappresentative, ho vittoria su me stesso.”
Ha infatti vittoria sul male, difetto di bene, senza perdere di vista, anzi guardando lontano, a ciò che è buono, che salva ed è perciò trasferibile a tutti senza sentimenti di colpa. E senza incertezze.
Perché, con l’opera d’arte, l’artista si dice a tutti noi in ciò che veramente ci unisce ed accomuna.
Salvarsi la vita è lo scopo di chi agisce creativamente. La creatività nasce infatti dalla necessità. E la necessità ha il sapore etimologico della morte violenta.
Così l’opera di Antonio Pepe è soprattutto una vittoria sulla morte.
Una morte strisciante, ma non elusa.
Guardata piuttosto negli occhi, ammesso che la morte abbia fattezze umane come desiderava che fosse Cesare Pavese.
Che avesse gli occhi di una donna, una donna mai posseduta, mai conosciuta e, nonostante tutto, da sempre cercata.
Questa donna è quella che tutti gli uomini cercano.
Tutti gli uomini di sesso maschile, naturalmente. Gli uomini che passano di desiderio in desiderio alla ricerca della propria madre.
Questa problematica edipica il Maestro Pepe l’affronta soprattutto nella bellissima rappresentazione della Via Crucis.
“A Via crucis”, stando alla pronunzia ed alla sonorità musicale della parlata napoletana.
In questa serie di sculture la determinazione rappresentativa del vuoto raggiunge vette sublimi.
I personaggi della passione sono circonfusi dalla luce di un movimento nascosto, ma presente, che, pur nella immobilità definitoria dell’acciaio, si ripropongono alla contemplazione come immagini viventi e attive.
In questa passione vivente di Cristo c’è pure l’uomo, l’artista Pepe, separato dalla madre, solo con Dio. Adulto e ricco di umanità.
La passione, poi, vive, paradossalmente, modellata e incarnata nell’acciaio che ferisce e arreca morte.
E’ un attraversamento senza parole, e nel silenzio, di ciò che, proprio perché fondamento della libertà, “significar per verba non si porria”.
E non mi riferisco soltanto al mistico “trasumanare dantesco”.
Ciò che mi preme di più è dire, prima di tutto a me stesso, che la vera sofferenza è l’indicibile.
E’ malattia che traspare, ma non può essere pienamente manifestata.
C’è l’indigenza del linguaggio, c’è l’indicibilità.
Soltanto l’alchimia dell’arte – l’arte vera naturalmente – può affrontare questo problema.
Ma che dire ancora della bellissima testa di cavallo, della donna scarmigliata o delle tante teste di filosofi ?
In queste opere dedicate ai filosofi si nasconde un sorriso. Un sorriso benevole ed assolutamente non irriverente.
Come se Antonio Pepe ricordasse a tutti noi che “l’arte rivela ai cuori ciò che nessuna scienza può rivelare alle menti”.
L’arte accorda la mente e il cuore.
Quando il cuore è “scordato” la mente si opaca e la vena artistica si esaurisce.
“Il vento che nasce e muore nell’ora che lenta si annera, suonasse te pure stasera,scordato strumento cuore”. Lo riconoscete ,certamente.
E’ l’Eugenio Montale di “Corno Inglese”.
E’ dunque e soprattutto in riferimento a queste citate produzioni in acciaio, che si rivela un humor sottile che confluisce all’utilizzazione dello spazio un’impronta assolutamente originale.
Antonio Pepe diventa quasi un Arcimboldo della scultura. Anzi lo è.
Passando poi per il Corso Garibaldi, di fronte la Chiesa di San Giorgio, non è cosa strana che, guardando la vetrina di Mario Chiovaro, si senta quasi la musica di un suonatore di trombone a coulisse…….
Reggio Calabria 6 febbraio 2008
Biblioteca Comunale “P. De Nava”
Antonino Monorchio
Opera di riferimento: Il cavallo di Orlando
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