Antonio D'amore
Su ogni immagine una sequenza alfanumerica serve, se non a identificare, quanto meno a connotare. L’immagine riprodotta vive una sua storia, nel ricordo di quello che è già stato. Affiorano miti e testimonianze d’arte del passato, icone del tempo, ricordi congelati. Affiorano come fantasmi incancellabili, patrimonio mentale dell’umanità. E su queste citazioni evocative ecco imprimersi i numeri e le lettere, secondo una logica di analogie e di rimandi, di nomi e di date, di stratificazioni letterarie.
Per Antonio d’Amore la riproduzione fotomeccanica di un’immagine consegnata dalla storia è una base iconografica su cui costruire il suo universo pittorico, fatto di colore che si distende sulla tela a ondate, lasciando tracce a volte più dense, altre volte diluite al punto da apparire rarefatte. E di pittura, di pura pittura, sono i codici testuali.
I simboli grafici della scrittura diventano così la struttura stessa di ogni opera, ne sono lo scheletro, l’anima, sono i pilastri compositivi. In quelle cifre c’è l’espressione di una ricerca visiva che fa propria la pittura testuale, la pittura scritta.
"Venere" o "il messaggero" o i “kuroi” sono elementi del destino, sono immagini scavate tra i magazzini della memoria e utilizzate come narrazioni spazio-temporali. Vivono una vita autonoma, finché la pittura-colore non entra prepotentemente in scena, rimarcando figure e sovvertendo prospettive. Sarà poi la sequenza alfanumerica a dettare le condizioni della visione, a imporre un ritmo di lettura, a legare immagine e tensione emotiva, a sovrapporre i linguaggi e a sperimentare fusioni lessicali, a “scrivere pittura”.
E sì, è una pittura tutta da scrivere, legata indissolubilmente al titolo, alla sua ragion d’essere. Cosa rimane delle citazioni della pittura classica o della statuaria greco-romana? Agli occhi di un viaggiatore contemporaneo resta un ricordo intriso di colori ed emozioni, e probabilmente un codice più o meno visibile per l’archiviazione mnemonica.
d’Amore rende esplicito tutto il lavoro mentale, nascosto, che sta dietro al rapporto con l’arcaico, con i linguaggi del passato che si aprono alla contemporaneità. Ma non c’è spazio per un compiacimento dell’occhio, i simboli del presente sono la continuità con la storia.
Ogni opera non vive un dualismo tra passato e presente, non c’è una dicotomia. C’è piuttosto l’amalgama tra la condizione storica e la proiezione futuribile. Al centro c’è sempre la persona, la sua immagine, il suo vissuto. E a tutto questo rimanda il codice, che è marchio di fabbrica, è titolo e data, che è simbolo di appartenenza. Lettere e numeri sono indissolubilmente legati a quello che solitamente si chiama vita.
(ENZO BATTARRA)