Andrea Cardia
pittore
Andrea Cardia
di
Sergio Rossi
Andrea Cardia è a mio avviso uno tra i più visionari, creativi e possenti, ma anche misconosciuti, giovani (ormai si è giovani anche a quarant’anni) artisti italiani dei giorni nostri. E le due cose, apparentemente contraddittorie, in realtà legano molto bene insieme: infatti Cardia è “misconosciuto”, ossia volutamente ignorato dai circuiti di gallerie, critici, mostre e istituzioni pubbliche che contano proprio in quanto ostinatamente visionario, creativo, potentemente inquieto e solitario. Ma visto che io a mia volta non frequento abitualmente i luoghi di cui sopra, e non per alterigia ma solo perché ritengo che essi debbano essere uno dei mezzi e non il fine ossessivo dell’attività degli storici e dei critici d’arte o degli artisti stessi, mi ritengo in particolare sintonia con l’artista e perfettamente abilitato a tesserne (criticamente) le lodi.
A prima vista Cardia si richiama più che a quello italiano, al neoespressionismo tedesco dei cosiddetti “nuovi selvaggi”, Richter, Polke, Baselitz che sono tornati alle fonti della loro tradizione proponendo un modo nuovo di rileggere l’Espressionismo di inizio secolo; ma si tratta appunto di una prima impressione perché in realtà nel nostro artista troviamo un ancoraggio alla tradizione classica e primo novecentesca italiana che certo nei “nuovi selvaggi” non era presente e che qualifica Cardia come un esponente autenticamente “mediterraneo”. Egli ha diviso la sua produzione in una serie di capitoli, quasi fosse un romanzo col finale ancora aperto, Ominidi, Donne, Paesaggi umani, L’anima scabra, in cui si racconta di un’umanità violentata e dolente, che emerge dostoevskijanamente dal sottosuolo dell’anima, ma che è perennemente alla ricerca di un possibile riscatto. I suoi dipinti sono per lo più dominati da grandi figure quasi monocromatiche, spesso viste di spalle, color carne, grigio, ocra, appena ravvivate da pochi inserti di rosso, di blu che accendono sonorità improvvise; molte volte esse si flettono, addirittura si capovolgono, esprimendo una tragica ma contenuta tensione dinamica, altre volte Cardia recupera invece una più morbida sensualità in alcune belle figure di nudi femminili, ricchi di una corposa vitalità e una materica plasticità che a me riporta alla mente alcuni meravigliosi corpi sfranti di donna di quel (anch’egli misconosciuto) grande genio del nostro Novecento che è stato Fausto Pirandello. La pittura di Cardia si affida comunque ad un gesto quasi informale che lo impegna in un corpo a corpo con la materia dagli esiti sempre imprevedibili, ora di una figurazione quasi minuziosa, ora di una semplificazione formale che sfiora l’astrazione, dal pieno al vuoto secondo epifanie e cancellamenti che denotano in ogni caso una tensione creativa sempre al limite dell’esplosione. Fedeltà alla pittura, in definitiva, secondo quella compresenza di “fatica di corpo” e fatica di mente” che è uno degli assunti più generali di questo mio libro: fatica che si ottiene con gli oli, le tempere, gli acrilici, ma anche la sabbia o il catrame distribuiti sulle tele o sulle carte. Pittura figurativa, dunque, che vuol dire adesione alla realtà, ma non sua pedissequa o fotografica riproduzione. E pittura figurativa che tende ad andare oltre, o forse sarebbe meglio dire, dentro, i corpi per scandagliarne gli umori e la psiche. E’ stato per primo Leonardo, come si sa, a comprendere, attraverso la sua teoria dei moti dell’animo che la raffigurazione del corpo umano non è mai, almeno quando l’artista è veramente tale, una raffigurazione puramente esteriore ma al contrario un volto, ma anche una mano, un gesto, una torsione del busto, possono esprimere così tante emozioni e sentimenti, starei per dire pensieri, quanto possono esprimerlo delle parole, dei versi, dei racconti interi. Ed anche quel gesto pittorico di Cardia, di cui prima parlavamo, è solenne ed eroico, piuttosto che disperato, direi più michelangiolesco che pollockiano; presuppone quel conflitto titanico tra forma e materia che trae origine dalla più sofisticata delle matrici culturali mediterranee, quella neoplatonica, piuttosto che dal nichilismo distruttivo e cinico, ancorché pieno di nullificante fascino, di quella cultura americana del secondo dopo guerra cui appunto facevano riferimento, sia pure in modo diverso, Pollock o Kerouak e che a Cardia è, seppure non del tutto, estranea. In lui, in definitiva, vedo più Pasolini che Bukovski; più Schifano e Tano Festa delle origini che Roy Lichtenstein o Keith Haring. E’ lo stesso artista a definire molti dei suoi quadri come “paesaggi umani”, dove l’uomo o la donna sono presenti anche quando sono assenti, lasciando comunque sulla tela o sulle carte tracce dei loro corpi, dei loro suoni, dei loro odori. A volte si vedono solo due gambe e i piedi di una sedia a raccontare di un incontro d’amore solo momentaneamente andato a buon fine; lei poi rimane nuda e sensuale, ripresa di schiena, distesa sul letto, con le pennellate spesse e ruvide che la fanno quasi uscire dalla tela e probabilmente decide di andarsene se l’uomo, racchiuso, solo, disperato ci appare come Adamo nel giorno del peccato.
In quella che potremmo definire una sorta di biografia autorizzata così Veronica Briganti tratteggia la personalità di Andrea: << Cardia nasce a Roma nel Luglio del 1971, ultimo di sette fratelli. Una vita giovane ma segnata da esperienze borderline che confluiscono, come nella migliore tradizione delle biografie ”maudites”, nelle tele trasognate o drammaticamente connotate da un segno grafico potente, nero, definitivo. Le componenti, quelle materiche e quelle brucianti della vita vissuta, s’intersecano e si confondono nel gioco drammatico dei colori e delle forme tormentate. Sulla tela, infatti, si consuma il gioco di un’infanzia negata, rivissuta ed evocata dall’uso insolito delle vernici da carrozziere, respirate da bambino nell’officina paterna. Così si passa con totale naturalezza all’uso della sabbia e al catrame, materiali immediatamente reperibili, materiali da “street art”. Ogni forma d’espressione è orientata alla ricerca tattile e febbrile d’odori del passato, delle sensazioni mai dimenticate che si materializzano magicamente sulle tele ma anche su tutti gli altri tipi di supporti poveri o improvvisati dall’urgenza della pittura. Per questa ragione nella produzione di Andrea Cardia non c’è spazio per le sperimentazioni della contemporanea videoarte se non in passaggi occasionali,perché la mediazione di una videocamera o di una macchina fotografica impedisce l’esperienza puramente materica, che è anche l’esperienza dei sensi. Le tele vengono perciò “agite” in una sorta di action painting che non rinuncia però alla figura nel momento in cui il supporto viene sporcato, accarezzato, abbracciato, calpestato perfino affinché l’arte si confonda con la vita>>. Continuando in questa sorta di breve antologia critica ecco cosa scrive il sociologo Claudio Fabbri: <<L’arte di Cardia è un atto d’accusa contro la disumanità, un invito a riconoscere la storicità; non solo questo però. Traspare nelle sue opere anche la ribellione nei confronti di quelle forme degradate della comunicazione che hanno sequestrato nei loro palinsesti i sentimenti umani, ”intervistandoli” e facendone oggetto di una chiacchiera interminabile e oscena. Così la morsa si fa più stretta. I suoi quadri non concedono nulla al bisogno di pacificazione dell’osservatore; al contrario, lo provocano, gli si contrappongono, ne mettono a nudo, straniandolo, i condizionamenti linguistici e gli automatismi formali. Sulle tele e gli altri supporti materiali di cui fa uso l’artista- sacchi di iuta, cartone, legno e altro – dilagano linee e colori che marcano coscientemente la propria distanza espressiva rispetto al dominio dei linguaggi etero diretti e il cui scopo è ripristinare le regole minime di una lingua autentica e critica, autentica perché critica>>.
Mentre Francesca Sacerdoti osserva: <<E’ l’essenza dell’essere umano il perno intorno al quale ruotano i lavori di Andrea Cardia; la centralità della figura umana è sintesi e nel contempo genesi di un discorso più ampio che coinvolge tutto lo spazio circostante. Corpi che fuoriescono dalle tele/tavole attraverso una sapiente manualità che lavora la materia, la modella, la sovrappone, l’interpreta e la genera di nuovo dando vita ad opere che raccontano intimi dolori e universali affanni.
Le schiene si curvano, le braccia coprono i volti o si protendono, il nudo riscopre la sua forma primordiale fatta di linee grezze e tratti decisi che si intrecciano tra di loro facendosi largo tra elementi “poveri” come lo stucco, la calce, pezzi di stoffa e giornale che assemblandosi tra di loro ricoprono come vesti membra e arti di uomini comuni. I colori sono quelli della terra, quelli che sporcano e sfiancano, gli stessi che erigono quei confini netti che separano le nostre città dal blu del cielo, dal verde dei campi, gli stessi che giorno dopo giorno soffocano la nostra percezione del reale in cambio di false illusioni filtrate da schermi al plasma e da tubi catodici. Passione intensa quasi come martirio; Ed ecco comparire, nella sequenzialità di questi lavori, l’essere Umano, che cerca di rialzarsi, aggrapparsi, lottare sotto il peso della materia/ materialità che finisce comunque per schiacciarlo, seppellirlo fino a costringerlo a chiudersi nuovamente in se stesso, a proteggersi come meglio può>>.
Si tratta di contributi critici molto pertinenti ed emotivamente partecipati, che insistono su un aspetto sicuramente centrale nella poetica di Cardia, quello della contaminazione arte/vita, ma che naturalmente non esauriscono, e nemmeno potrebbero farlo, tutti gli elementi della sua produzione artistica. Uno fra tutti a me pare essenziale ed è quello del segno/disegno, autentica genesi di ogni successivo passaggio poetico. Disegni che ora sono prove e bozzetti per i successivi dipinti, ora sono opere già in sé formalmente compiute, si tratti di volti sapientemente resi con poche linee essenziali, di corpi di donna ora oscenamente appesantiti ed obesi ora più castamente genuflessi e inclinati, di corpi infine di uomini e donne abbracciati insieme fino a confondersi e divenire una entità unica. In questi disegni c’è la resa del desiderio, che è passione ma anche rinuncia: l’amore, sembra dirci Cardia, può anche essere scomparire, coltivare un piccolo dolore da accarezzare al posto del seno di una donna, magari ascoltando una mazurka di Chopin o una ballata di Bob Dylan. E in questi disegni quasi sempre in bianco e nero affiorano qua e là lampi di rosso sangue o di azzurro che ne ravvivano drammaticamente l’impatto visivo. La stessa cosa che avviene per i dipinti, spesso condotti con toni lividi e sommessi ma che a volte si accendono di improvvisi e rutilanti fragori; dipinti che costituiscono la prosecuzione naturale e diretta dei disegni che prima descrivevamo e che consentono quel continuo corpo a corpo con la materia nel quale Cardia trova la più autentica motivazione del suo fare artistico.
Alcuni anni fa, occupandomi di un artista che ho molto apprezzato prima che il suo continuo auto ripiegamento lo portasse ad un’autentica afasia estetica, cioè Giuliano Collina, scrivevo alcune frasi che si potrebbero ben adattare, con le dovute differenze, anche a Cardia: <<Collina, pur tra mille dubbi e ricerche non rifiuta la tradizione, non contesta il suo ruolo di pittore a tutti gli effetti. Egli si sente, appunto, più pittore che artista, e non si tratta di differenze solo nominalistiche. Si tratta di conservare, pur aggiornandolo, tutto un linguaggio figurativo e tematico che attraverso i secoli ha fatto grande la cultura italiana; si tratta di sentirsi in ogni caso eredi di una tradizione “classica” che non va dispersa; che può essere certo contestata e innovata ma che non va negata o ignorata; con cui insomma ci si deve confrontare>>. Cosa appunto che anche Cardia fa. E qui bisogna in qualche modo tornare all’inizio del mio libro, quando descrivo la nascita della figura moderna dell’artista come ancora noi la intendiamo.
Fin dal suo nascere l'arte figurativa ha dovuto fare i conti, si sa, con la propria duplice natura, sempre in bilico tra intellettualità e manualità, ed i suoi protagonisti si sono visti ora assimilare a dei semplici artigiani, ora elevare al rango di intellettuali. Nel Medioevo, ad esempio, vi era una radicale svalutazione del ruolo sociale e della funzione intellettuale dell'artista figurativo. Pittura, scultura e (sia pure in parte) architettura erano considerate sullo stesso piano delle arti meccaniche ed il manufatto artistico aveva ancora le caratteristiche di un prodotto apprezzato per la sua fattura, per i materiali preziosi che racchiudeva, ma non per dei fattori estetici considerati autonomamente. Del resto nel Medioevo non era riconosciuto alcuno spazio al concetto di individualità creatrice e si era quello che la gerarchia sociale rigidamente controllata imponeva di essere, sia nell’età feudale che, successivamente, nell’età delle corporazioni. In quest’ultimo periodo, in particolare, l’artefice oltre ad essere proprietario dei mezzi di produzione, era anche l’ideatore degli oggetti che eseguiva e dunque il suo prodotto finito era il risultato non solo della sua attività pratica di esecuzione, ma anche delle sue capacità intellettuali di ideazione; ma questo momento ideativo non aveva nessun valore se considerato a sé stante, e trovava nella concretezza del prodotto finito la sua attuazione. Così, in quest’epoca, sarebbe stata inconcepibile la figura dell’artista inteso come genio, indipendentemente dalle sue realizzazioni operative. Anche l’operazione artistica, come ogni altra attività manifatturiera, aveva dunque le caratteristiche di lavoro concreto (secondo la celebre definizione di Karl Marx nel Capitale) e l’artista, in quanto inserito nel sistema di produzione corporativo, occupava nella gerarchia sociale un ruolo che possiamo considerare subordinato ma non frustrante, anzi essenziale, tipico comunque di tutto il suo ceto. Il tumultuoso evolversi del capitalismo mercantile cominciò però poi a trasformare dall'interno la struttura corporativa, mettendone progressivamente in crisi la ragion d'essere, pur attraverso un movimento graduale ma non per questo meno vigoroso. Bisognerà attendere comunque il primo Rinascimento perché l’artista giunga ad una totale consapevolezza del valore sociale e ideologico della sua opera e a difendere la propria professione come arte liberale, prima attraverso il pensiero, già brevemente ricordato, di Leonardo da Vinci, quindi, in modo ancora più radicale, con le teorie artistiche del Manierismo. In questo contesto quella di Federico Zuccari può essere considerata come una summa di tutte le teorie manieristiche in cui convivono fonti tra loro diversissime come Aristotele, Sant’Agostino, San Tommaso, Marsilio Ficino. La sua interpretazione tende a rivalutare l’attività umana, ed in particolare le arti figurative intese come vera e propria filosofia e considerate (in special modo la pittura), come l’universale chiave conoscitiva e rappresentativa del mondo. Con la nascita, nel corso del XVI secolo, delle Accademie di Belle Arti, logica conseguenza pratica delle teorie ora esposte, la dicotomia tra arte e artigianato e tra intellettualità e manualità sembra essere divenuta ormai definitiva. Ma nulla è irreversibile nella storia dell’uomo e così le Accademie, nate come espressione rivoluzionaria della nuova dimensione sociale degli artisti, non più solo “artefici” ma ormai intellettuali in senso pieno, le Accademie dicevo, divengono al contrario il luogo della conservazione e della retroguardia cui gli artisti più impegnati si ribellano, o attraverso una dimensione bohemien e antiborghese o attraverso il sogno di ricreare le vecchie botteghe medievali, sia pure su basi completamente nuove, e penso ai Preraffaelliti inglesi, o addirittura a condizionare attraverso l’arte e l’artigianato la nuova produzione industriale, e penso a Gropius, Klee e all’utopia della Bauhaus. Oggi finalmente possiamo ricomporre questo dualismo e riconoscere che tra intellettualità e manualità, tra idea e prassi non vi è alcun motivo di contrasto. Tramontata infatti anche la grande utopia dell’arte concettuale si è tornati ad apprezzare in un’opera d’arte la cura fattuale, possiamo ormai anche dire artigianale, con cui essa è eseguita, senza per questo nulla togliere al suo valore intellettuale.
In quest’ottica, pittori come Andrea Cardia, che sono certo non smetterà mai di sperimentare, soffrire, cercare di innovare continuamente il suo linguaggio, rappresentano l’unico antidoto alla infausta previsione della morte dell’arte, che potrà avvenire solo se morirà anche, tutt’intera, la nostra civiltà. Ed io sono sicuro che questo non avverrà.
Formazione
Andrea Cardia
di
Sergio Rossi
Andrea Cardia è a mio avviso uno tra i più visionari, creativi e possenti, ma anche misconosciuti, giovani (ormai si è giovani anche a quarant’anni) artisti italiani dei giorni nostri. E le due cose, apparentemente contraddittorie, in realtà legano molto bene insieme: infatti Cardia è “misconosciuto”, ossia volutamente ignorato dai circuiti di gallerie, critici, mostre e istituzioni pubbliche che contano proprio in quanto ostinatamente visionario, creativo, potentemente inquieto e solitario. Ma visto che io a mia volta non frequento abitualmente i luoghi di cui sopra, e non per alterigia ma solo perché ritengo che essi debbano essere uno dei mezzi e non il fine ossessivo dell’attività degli storici e dei critici d’arte o degli artisti stessi, mi ritengo in particolare sintonia con l’artista e perfettamente abilitato a tesserne (criticamente) le lodi.
A prima vista Cardia si richiama più che a quello italiano, al neoespressionismo tedesco dei cosiddetti “nuovi selvaggi”, Richter, Polke, Baselitz che sono tornati alle fonti della loro tradizione proponendo un modo nuovo di rileggere l’Espressionismo di inizio secolo; ma si tratta appunto di una prima impressione perché in realtà nel nostro artista troviamo un ancoraggio alla tradizione classica e primo novecentesca italiana che certo nei “nuovi selvaggi” non era presente e che qualifica Cardia come un esponente autenticamente “mediterraneo”. Egli ha diviso la sua produzione in una serie di capitoli, quasi fosse un romanzo col finale ancora aperto, Ominidi, Donne, Paesaggi umani, L’anima scabra, in cui si racconta di un’umanità violentata e dolente, che emerge dostoevskijanamente dal sottosuolo dell’anima, ma che è perennemente alla ricerca di un possibile riscatto. I suoi dipinti sono per lo più dominati da grandi figure quasi monocromatiche, spesso viste di spalle, color carne, grigio, ocra, appena ravvivate da pochi inserti di rosso, di blu che accendono sonorità improvvise; molte volte esse si flettono, addirittura si capovolgono, esprimendo una tragica ma contenuta tensione dinamica, altre volte Cardia recupera invece una più morbida sensualità in alcune belle figure di nudi femminili, ricchi di una corposa vitalità e una materica plasticità che a me riporta alla mente alcuni meravigliosi corpi sfranti di donna di quel (anch’egli misconosciuto) grande genio del nostro Novecento che è stato Fausto Pirandello. La pittura di Cardia si affida comunque ad un gesto quasi informale che lo impegna in un corpo a corpo con la materia dagli esiti sempre imprevedibili, ora di una figurazione quasi minuziosa, ora di una semplificazione formale che sfiora l’astrazione, dal pieno al vuoto secondo epifanie e cancellamenti che denotano in ogni caso una tensione creativa sempre al limite dell’esplosione. Fedeltà alla pittura, in definitiva, secondo quella compresenza di “fatica di corpo” e fatica di mente” che è uno degli assunti più generali di questo mio libro: fatica che si ottiene con gli oli, le tempere, gli acrilici, ma anche la sabbia o il catrame distribuiti sulle tele o sulle carte. Pittura figurativa, dunque, che vuol dire adesione alla realtà, ma non sua pedissequa o fotografica riproduzione. E pittura figurativa che tende ad andare oltre, o forse sarebbe meglio dire, dentro, i corpi per scandagliarne gli umori e la psiche. E’ stato per primo Leonardo, come si sa, a comprendere, attraverso la sua teoria dei moti dell’animo che la raffigurazione del corpo umano non è mai, almeno quando l’artista è veramente tale, una raffigurazione puramente esteriore ma al contrario un volto, ma anche una mano, un gesto, una torsione del busto, possono esprimere così tante emozioni e sentimenti, starei per dire pensieri, quanto possono esprimerlo delle parole, dei versi, dei racconti interi. Ed anche quel gesto pittorico di Cardia, di cui prima parlavamo, è solenne ed eroico, piuttosto che disperato, direi più michelangiolesco che pollockiano; presuppone quel conflitto titanico tra forma e materia che trae origine dalla più sofisticata delle matrici culturali mediterranee, quella neoplatonica, piuttosto che dal nichilismo distruttivo e cinico, ancorché pieno di nullificante fascino, di quella cultura americana del secondo dopo guerra cui appunto facevano riferimento, sia pure in modo diverso, Pollock o Kerouak e che a Cardia è, seppure non del tutto, estranea. In lui, in definitiva, vedo più Pasolini che Bukovski; più Schifano e Tano Festa delle origini che Roy Lichtenstein o Keith Haring. E’ lo stesso artista a definire molti dei suoi quadri come “paesaggi umani”, dove l’uomo o la donna sono presenti anche quando sono assenti, lasciando comunque sulla tela o sulle carte tracce dei loro corpi, dei loro suoni, dei loro odori. A volte si vedono solo due gambe e i piedi di una sedia a raccontare di un incontro d’amore solo momentaneamente andato a buon fine; lei poi rimane nuda e sensuale, ripresa di schiena, distesa sul letto, con le pennellate spesse e ruvide che la fanno quasi uscire dalla tela e probabilmente decide di andarsene se l’uomo, racchiuso, solo, disperato ci appare come Adamo nel giorno del peccato.
In quella che potremmo definire una sorta di biografia autorizzata così Veronica Briganti tratteggia la personalità di Andrea: << Cardia nasce a Roma nel Luglio del 1971, ultimo di sette fratelli. Una vita giovane ma segnata da esperienze borderline che confluiscono, come nella migliore tradizione delle biografie ”maudites”, nelle tele trasognate o drammaticamente connotate da un segno grafico potente, nero, definitivo. Le componenti, quelle materiche e quelle brucianti della vita vissuta, s’intersecano e si confondono nel gioco drammatico dei colori e delle forme tormentate. Sulla tela, infatti, si consuma il gioco di un’infanzia negata, rivissuta ed evocata dall’uso insolito delle vernici da carrozziere, respirate da bambino nell’officina paterna. Così si passa con totale naturalezza all’uso della sabbia e al catrame, materiali immediatamente reperibili, materiali da “street art”. Ogni forma d’espressione è orientata alla ricerca tattile e febbrile d’odori del passato, delle sensazioni mai dimenticate che si materializzano magicamente sulle tele ma anche su tutti gli altri tipi di supporti poveri o improvvisati dall’urgenza della pittura. Per questa ragione nella produzione di Andrea Cardia non c’è spazio per le sperimentazioni della contemporanea videoarte se non in passaggi occasionali,perché la mediazione di una videocamera o di una macchina fotografica impedisce l’esperienza puramente materica, che è anche l’esperienza dei sensi. Le tele vengono perciò “agite” in una sorta di action painting che non rinuncia però alla figura nel momento in cui il supporto viene sporcato, accarezzato, abbracciato, calpestato perfino affinché l’arte si confonda con la vita>>. Continuando in questa sorta di breve antologia critica ecco cosa scrive il sociologo Claudio Fabbri: <<L’arte di Cardia è un atto d’accusa contro la disumanità, un invito a riconoscere la storicità; non solo questo però. Traspare nelle sue opere anche la ribellione nei confronti di quelle forme degradate della comunicazione che hanno sequestrato nei loro palinsesti i sentimenti umani, ”intervistandoli” e facendone oggetto di una chiacchiera interminabile e oscena. Così la morsa si fa più stretta. I suoi quadri non concedono nulla al bisogno di pacificazione dell’osservatore; al contrario, lo provocano, gli si contrappongono, ne mettono a nudo, straniandolo, i condizionamenti linguistici e gli automatismi formali. Sulle tele e gli altri supporti materiali di cui fa uso l’artista- sacchi di iuta, cartone, legno e altro – dilagano linee e colori che marcano coscientemente la propria distanza espressiva rispetto al dominio dei linguaggi etero diretti e il cui scopo è ripristinare le regole minime di una lingua autentica e critica, autentica perché critica>>.
Mentre Francesca Sacerdoti osserva: <<E’ l’essenza dell’essere umano il perno intorno al quale ruotano i lavori di Andrea Cardia; la centralità della figura umana è sintesi e nel contempo genesi di un discorso più ampio che coinvolge tutto lo spazio circostante. Corpi che fuoriescono dalle tele/tavole attraverso una sapiente manualità che lavora la materia, la modella, la sovrappone, l’interpreta e la genera di nuovo dando vita ad opere che raccontano intimi dolori e universali affanni.
Le schiene si curvano, le braccia coprono i volti o si protendono, il nudo riscopre la sua forma primordiale fatta di linee grezze e tratti decisi che si intrecciano tra di loro facendosi largo tra elementi “poveri” come lo stucco, la calce, pezzi di stoffa e giornale che assemblandosi tra di loro ricoprono come vesti membra e arti di uomini comuni. I colori sono quelli della terra, quelli che sporcano e sfiancano, gli stessi che erigono quei confini netti che separano le nostre città dal blu del cielo, dal verde dei campi, gli stessi che giorno dopo giorno soffocano la nostra percezione del reale in cambio di false illusioni filtrate da schermi al plasma e da tubi catodici. Passione intensa quasi come martirio; Ed ecco comparire, nella sequenzialità di questi lavori, l’essere Umano, che cerca di rialzarsi, aggrapparsi, lottare sotto il peso della materia/ materialità che finisce comunque per schiacciarlo, seppellirlo fino a costringerlo a chiudersi nuovamente in se stesso, a proteggersi come meglio può>>.
Si tratta di contributi critici molto pertinenti ed emotivamente partecipati, che insistono su un aspetto sicuramente centrale nella poetica di Cardia, quello della contaminazione arte/vita, ma che naturalmente non esauriscono, e nemmeno potrebbero farlo, tutti gli elementi della sua produzione artistica. Uno fra tutti a me pare essenziale ed è quello del segno/disegno, autentica genesi di ogni successivo passaggio poetico. Disegni che ora sono prove e bozzetti per i successivi dipinti, ora sono opere già in sé formalmente compiute, si tratti di volti sapientemente resi con poche linee essenziali, di corpi di donna ora oscenamente appesantiti ed obesi ora più castamente genuflessi e inclinati, di corpi infine di uomini e donne abbracciati insieme fino a confondersi e divenire una entità unica. In questi disegni c’è la resa del desiderio, che è passione ma anche rinuncia: l’amore, sembra dirci Cardia, può anche essere scomparire, coltivare un piccolo dolore da accarezzare al posto del seno di una donna, magari ascoltando una mazurka di Chopin o una ballata di Bob Dylan. E in questi disegni quasi sempre in bianco e nero affiorano qua e là lampi di rosso sangue o di azzurro che ne ravvivano drammaticamente l’impatto visivo. La stessa cosa che avviene per i dipinti, spesso condotti con toni lividi e sommessi ma che a volte si accendono di improvvisi e rutilanti fragori; dipinti che costituiscono la prosecuzione naturale e diretta dei disegni che prima descrivevamo e che consentono quel continuo corpo a corpo con la materia nel quale Cardia trova la più autentica motivazione del suo fare artistico.
Alcuni anni fa, occupandomi di un artista che ho molto apprezzato prima che il suo continuo auto ripiegamento lo portasse ad un’autentica afasia estetica, cioè Giuliano Collina, scrivevo alcune frasi che si potrebbero ben adattare, con le dovute differenze, anche a Cardia: <<Collina, pur tra mille dubbi e ricerche non rifiuta la tradizione, non contesta il suo ruolo di pittore a tutti gli effetti. Egli si sente, appunto, più pittore che artista, e non si tratta di differenze solo nominalistiche. Si tratta di conservare, pur aggiornandolo, tutto un linguaggio figurativo e tematico che attraverso i secoli ha fatto grande la cultura italiana; si tratta di sentirsi in ogni caso eredi di una tradizione “classica” che non va dispersa; che può essere certo contestata e innovata ma che non va negata o ignorata; con cui insomma ci si deve confrontare>>. Cosa appunto che anche Cardia fa. E qui bisogna in qualche modo tornare all’inizio del mio libro, quando descrivo la nascita della figura moderna dell’artista come ancora noi la intendiamo.
Fin dal suo nascere l'arte figurativa ha dovuto fare i conti, si sa, con la propria duplice natura, sempre in bilico tra intellettualità e manualità, ed i suoi protagonisti si sono visti ora assimilare a dei semplici artigiani, ora elevare al rango di intellettuali. Nel Medioevo, ad esempio, vi era una radicale svalutazione del ruolo sociale e della funzione intellettuale dell'artista figurativo. Pittura, scultura e (sia pure in parte) architettura erano considerate sullo stesso piano delle arti meccaniche ed il manufatto artistico aveva ancora le caratteristiche di un prodotto apprezzato per la sua fattura, per i materiali preziosi che racchiudeva, ma non per dei fattori estetici considerati autonomamente. Del resto nel Medioevo non era riconosciuto alcuno spazio al concetto di individualità creatrice e si era quello che la gerarchia sociale rigidamente controllata imponeva di essere, sia nell’età feudale che, successivamente, nell’età delle corporazioni. In quest’ultimo periodo, in particolare, l’artefice oltre ad essere proprietario dei mezzi di produzione, era anche l’ideatore degli oggetti che eseguiva e dunque il suo prodotto finito era il risultato non solo della sua attività pratica di esecuzione, ma anche delle sue capacità intellettuali di ideazione; ma questo momento ideativo non aveva nessun valore se considerato a sé stante, e trovava nella concretezza del prodotto finito la sua attuazione. Così, in quest’epoca, sarebbe stata inconcepibile la figura dell’artista inteso come genio, indipendentemente dalle sue realizzazioni operative. Anche l’operazione artistica, come ogni altra attività manifatturiera, aveva dunque le caratteristiche di lavoro concreto (secondo la celebre definizione di Karl Marx nel Capitale) e l’artista, in quanto inserito nel sistema di produzione corporativo, occupava nella gerarchia sociale un ruolo che possiamo considerare subordinato ma non frustrante, anzi essenziale, tipico comunque di tutto il suo ceto. Il tumultuoso evolversi del capitalismo mercantile cominciò però poi a trasformare dall'interno la struttura corporativa, mettendone progressivamente in crisi la ragion d'essere, pur attraverso un movimento graduale ma non per questo meno vigoroso. Bisognerà attendere comunque il primo Rinascimento perché l’artista giunga ad una totale consapevolezza del valore sociale e ideologico della sua opera e a difendere la propria professione come arte liberale, prima attraverso il pensiero, già brevemente ricordato, di Leonardo da Vinci, quindi, in modo ancora più radicale, con le teorie artistiche del Manierismo. In questo contesto quella di Federico Zuccari può essere considerata come una summa di tutte le teorie manieristiche in cui convivono fonti tra loro diversissime come Aristotele, Sant’Agostino, San Tommaso, Marsilio Ficino. La sua interpretazione tende a rivalutare l’attività umana, ed in particolare le arti figurative intese come vera e propria filosofia e considerate (in special modo la pittura), come l’universale chiave conoscitiva e rappresentativa del mondo. Con la nascita, nel corso del XVI secolo, delle Accademie di Belle Arti, logica conseguenza pratica delle teorie ora esposte, la dicotomia tra arte e artigianato e tra intellettualità e manualità sembra essere divenuta ormai definitiva. Ma nulla è irreversibile nella storia dell’uomo e così le Accademie, nate come espressione rivoluzionaria della nuova dimensione sociale degli artisti, non più solo “artefici” ma ormai intellettuali in senso pieno, le Accademie dicevo, divengono al contrario il luogo della conservazione e della retroguardia cui gli artisti più impegnati si ribellano, o attraverso una dimensione bohemien e antiborghese o attraverso il sogno di ricreare le vecchie botteghe medievali, sia pure su basi completamente nuove, e penso ai Preraffaelliti inglesi, o addirittura a condizionare attraverso l’arte e l’artigianato la nuova produzione industriale, e penso a Gropius, Klee e all’utopia della Bauhaus. Oggi finalmente possiamo ricomporre questo dualismo e riconoscere che tra intellettualità e manualità, tra idea e prassi non vi è alcun motivo di contrasto. Tramontata infatti anche la grande utopia dell’arte concettuale si è tornati ad apprezzare in un’opera d’arte la cura fattuale, possiamo ormai anche dire artigianale, con cui essa è eseguita, senza per questo nulla togliere al suo valore intellettuale.
In quest’ottica, pittori come Andrea Cardia, che sono certo non smetterà mai di sperimentare, soffrire, cercare di innovare continuamente il suo linguaggio, rappresentano l’unico antidoto alla infausta previsione della morte dell’arte, che potrà avvenire solo se morirà anche, tutt’intera, la nostra civiltà. Ed io sono sicuro che questo non avverrà.