Gli inchiostri
GLI INCHIOSTRI DI MARIA GRAZIA DALLERA
All’interno dell’arte contemporanea la costante linguistica degli inchiostri di Maria Grazia Dallera, inerenti il discorso espressivo, è il segno e il soggetto fondamentale
delle sue figure è l’albero,considerato da sempre, per la sua verticalità, simbolo
della vita in continua evoluzione.
Autodidatta,la Dallera ha saputo ben scegliere, nutrendosi, soprattutto,della lezione
ideale di Federica Galli- uno dei più importanti calcografi contemporanei- dalla cui
grafia artistica ha saputo trarre, in maniera personale e diversamente esplicita,la
percezione delle organizzazioni formali.
Altrettante indicazioni deve aver dedotto, per altro,da alcuni stilemi romantici e,
propriamente, dalle esperienze neoclassiciste di Jean Baptiste Corot, ovvero dalla sua
verità di visione, intima e segreta, sorretta dai valori tonali e ammalianti della luce.
Il disegno, siccome”Sul disegnare”di John Berger, è un atto mentale, un momento
estetico che permette ai fini dell’azione di leggere intorno l’enigma di ciò che
vediamo e, perciò, di affrontare,attraverso lo sguardo, e l’interrogazione del visibile.
Pertanto- ben oltre il significato pratico ed emblematico, le motivazioni psicologiche
pathos moderno e le correnti generali storicamente diffuse- l’andamento incisivo dei disegni qui esposti è proprio nel ritmo della luce che i segni inviano, affermativi nella loro scrittura, all’occhio per pervenire, appunto,alle finezze formali della vibrazione
leggera e oscillante dell’insieme percepibile, poiché disegnare, alla fin fine, è un modo, del tutto personale, di vedere il mondo.
Cosicché l’invito all’osservatore attento è di collegare, con sguardo nuovo e
continuamente rinnovato, l’insieme del visibile e l’idea significativamente astratta,
trasferita sui fogli, laddove esso, lo sguardo,esprime sì la realtà guardata e vista ma soprattutto- con l’equilibrata espressione dei rapporti tra la grafia e lo spazio-
l’individuazione di quanto di invisibile, secondo la nota affermazione di P. Klee, è
colto e mostrato dall’artista nel visibile.
Per esempio nella leggerezza aerea delle foglie, nella levità dell’aria e delle luci che ne attraversano lo spazio, le lateralità e la profondità, gli addensamenti e le rarefazioni temporali.
Il magistero che ha ispirato la Dallera è stato ricavato, probabilmente,anche
dall’osservazione, acuta e indicativa, delle antiche accentuazioni di tocco sciolte e nervose, di Marco Ricci o del Peruzzini, collaboratori di Alessandro Magnasco.
Aggiungo inoltre, per ovviare ogni superficiale considerazione, la fondamentale
distinzione fra pittore e artista, pur essa espressa da Paul Klee nelle pagine della sua
Teoria delle forme e della figurazione che raccoglie scritti pedagogici e le lezioni
al Bauhaus di Weimar e di Dessau.
Il pittore, ha detto il bernese, è colui che, di fronte a un prato, ritrae, possedendo gli
utili strumenti per farlo, l’aspetto del prato; l’artista, invece, è pur esso un pittore che, trovandosi in eguale frangente, esprime sì, con l’immagine, l’aspetto del prato consentendo però, all’osservatore attento, di percepire in più, nell’immagine, il crescere dell’erba.
Perciò quando la Dallera disegna a penna- attraverso l’avveduto e quasi immateriale veicolo dell’esercizio grafico che comprende anche la fabbricazione, in proprio, degli inchiostri estratti da umori vegetali- è una sorta di figurazione che tiene conto tanto del significato simbolico delle forme (studiato a fondo dalla Pafnosky e dal Cassirer) come e soprattutto della visione che permette alla fantasia astrazioni sensibili, interiorizzate.
La visione è, dunque, un modo di vedere, in maniera congrua all’immaginazione e alla conoscenza, altro; un incontro estraneo ai luoghi comuni, irripetibile, un attimo della vita che sembra esserci di fronte e che, invece, sta passando.
Gli orientali avevano compreso, ben prima di noi e lo capirono gli Impressionisti, specialmente Monet, che non vediamo due volte lo stesso paesaggio.
Ne consegue, pertanto, l’importanza dei disegni della Dallera che pervengono, con l’evidenza transitiva del divenire, tanto alla linea pittorica come a quella spirituale, segni che imprimono, peraltro, vitalità e verità alla rappresentazione.
E tali sono , infatti, per lei, vitalità e verità, sì da collimare con quelle Correspondances con le quali Baudelaire, scrivendo della poesia dei Parnassiani simile all’arte dei Simbolisti, parlava di linguaggio autosignificante, di intuizione sensoriale e di lingua delle cose mute.
Glossa rivela, a chi sa ascoltarla, persino l’indicibile.
Germano Beringheli
Germano Beringheli [Critico d'arte Giornalista]
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