Fronde di Mare
FRONDE DI MARE
Certi alberi sono intimamente legati a un tipo di terra che nutre il loro carattere e li segna in modo indelebile e li fa crescere alla stessa maniera della gente che li frequentano. Succede in particolare agli ulivi e ai pini cresciuti su certi riarsi terreni che guardano il mare o ne respirano l’atmosfera anche in località più lontane dalla costa. Maria Grazia Dallera disegna alberi a filo di china, foglia dopo foglia, nervatura dopo nervatura, per carpirne l’anima e nel contempo per conoscere meglio se stessa che in quegli alberi si immedesima e trova linfa creativa. Federica Galli, una delle più importanti acquafortiste del secolo scorso, è stata il suo punto di riferimento ideale in senso compositivo e formale. Anche lei interrogava gli alberi, in particolare quelli secolari, per sondare la natura e di riflesso noi che di questa natura dovremmo essere lo specchio. A differenza di Federica, la nostra autrice non frequenta il torchio e le lastre ma i suoi inchiostri indugiano sulla carta per trasferirvi elementi narrativi unici, non replicabili. Questo suo percorso sembra escludere la presenza umana da consegnare al ruolo di osservatore esterno; sembra anche escludere le case o altri manufatti che, quando compaiono, assumono il ruolo di corollari. L’albero o un gruppo di alberi trasmettono dunque quel carattere che, come si diceva, appartiene alla terra, a una determinata terra. Una terra che per lei profuma di mare e di un certo travaglio che da quel mare ( pensiamo al nostro mare di Liguria ) giunge fino a noi e ci pervade. Non a caso il lento e insistito procedere del suo pennino sulla carta va alla ricerca non solo di profondità prospettiche ma anche di risposte alle domande poste dal segno che ricama il racconto del vero per tradurlo nel racconto del desiderio ( queste piante infatti si trasformano, grazie a lei, in palpabile emozione, in un riscontro di memoria e di nostalgico smarrimento ). Pertanto il “Grande ulivo” del 2010 sembra l’emblema di questo ragionamento per la sua proprietà di sintesi esistenziale che parte dall’abbraccio del tronco avvitato su se stesso in un tormento di crescita e il progressivo movimento dei rami con le foglie tese alla moltiplicata conquista dell’aria. Così il “Solitario” del 2007 dispiega le fronde a cappello lungo il declivio che l’accoglie: anche il pino racconta la sua storia di resistenza alle intemperie che Maria Grazia assimila e trasforma in meditata cucitura di linee, come ferite da rimarginare e da consegnare al tempo che consuma il dolore e ne preserva i segni. Invece l’intreccio che emerge da “Selva” del 2013 racconta una curiosità che attraversa i rami e indaga le ripetute fughe di prospettiva che attendono la progressione del percorso esplorativo. In tal caso lo smarrimento si associa a quella curiosità che nutre i passi del nostro tempo. Il bianco e nero sembra il territorio privilegiato dalla nostra autrice perché in tal caso non vengono concesse divagazioni contemplative o dispersioni di attenzione che non siano quelle relative al “disegno” che si dipana nelle varie sfumature dettate dall’inchiostro per farsi racconto essenziale. Eppure in qualche caso viene richiesta e premiata la scelta di una tonalità più decisa o di labili sfumature d’intento pittorico. “Cedro in rosso” del 2012 appartiene alla prima categoria: la fluente chioma accesa dal colore certifica il temperamento dell’interprete di questo importante foglio. Invece le pallide, delicate, rosate varianti che caratterizzano “Fiume” del medesimo anno indugiano sulla curiosità e sul mistero che accompagnano il corso dell’acqua oltre il limite estremo della descrizione. Il mistero dell’acqua, il mistero del mare e il loro rapporto con gli alberi, con questi alberi. Ovviamente, come abbiamo detto, sono soprattutto i pini e gli ulivi a nutrire uno stretto legame, talora di sofferenza, con l’aridità di un terreno la cui vegetazione si apparenta agli antichi abitanti costretti a sopravvivere tra i monti e le scogliere. Ma altri protagonisti dell’universo di Dallera nutrono destini marini. Afferma lei stessa: “Per costruire un veliero occorrevano quattromila querce e duemila tra pini e abeti pari a diecimila metri cubi di legno: una foresta per una sola nave”. E poi: il rovere veniva usato per l’ossatura della nave, il tiglio per le polene, il faggio per i remi e i boccaporti, il pioppo da sovrapporre a legni più duri, il castagno per le botti e i barili, l’acero per le paratie e per i mobili di bordo, l’olmo per gli alberi maggiori e per le bitte… E anche se oggi la tecnologia ha vanificato una simile consuetudine, nei boschi non lontani dalle nostre Riviere dove si ergono questi eterogenei protagonisti si respira ancora quel profumo di salsedine che nutriva il destino dei loro avi. Maria Grazia Dallera si è dunque avvalsa di una lontana realtà per trasferirla nelle sue opere, per dotarle di un prezioso valore aggiunto che traspare dai suoi gesti, in certe malinconie espressive. Lo possiamo constatare in alcune sequenze della serie in mostra inserita in una variabile struttura geometrica: “Pioppo in quadrato” del 2015 manifesta una spinta ascensionale che si aggancia idealmente a una lontana vela; “Querce in poligono”, sempre del 2015, rincorrono ogni possibile divenire nella curiosità che insegue la carezza del tratto e lo lascia consumare oltre l’ultima percezione di foglie. All’inizio della nostra disamina si è accennato alla rimarcata assenza dell’uomo in tali racconti. Per esempio le tre sequenze del 2006 intitolate “Gosita” ci propongono casupole e altre labili costruzioni che, nella loro diroccata e selvatica essenza, si integrano nel paesaggio che le accoglie; anzi, sembrano anch’esse emergere dalle stesse radici che nutrono il bosco. Appartengono infatti allo stesso capitolo della favola che ci viene proposta. Anche per tale motivo gli alberi di Maria Grazia Dallera destinano preziosi alimenti a chi li osserva e li indaga con la necessaria partecipazione emozionale.
Luciano Caprile
Luciano Caprile [Criticod'arte, Giornalista]
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