La Poesia che guida l’individuo (e il popolo): Io e Rivoluzione ne “La vita là fuori” di Mariapia Crisafulli
Attendiamo, prendiamo, perdiamo treni; la vita assomiglia a un frenetico viavai di gente, e noi, che siamo quella gente, ci ritroviamo già da subito a correre, a sgomitare, a farci lupi nei confronti degli altri pur di accaparrarci il nostro posto nel mondo o, meglio, il nostro “posto al sole”. Siamo umani, del resto, vogliamo essere felici, e però, chissà perché, finiamo per ritrovarci perlopiù sedu-ti / sfocati / consumati, intenti quanto limitati a pregustare i dolci traguardi che ci si prospettano davanti e che, tuttavia, non bastano mai a saziarci. Siamo qui, ma non ora, e nell’attesa di una feli-cità che paradossalmente posticipiamo, in questo nostro aspettare che è una sorda fuga / dalla vita // la peggiore forma / di arrendevolezza / alla vita, finiamo per rimanere soli, a tenere il posto cia-scuno alla propria solitudine. Succede, allora, che preferiamo non pensarci, tentiamo in ogni modo e con ogni mezzo di evadere, distrarci. Ma immersi nella costante ricerca dello sballo, in ciò che Blaise Pascal chiamava divertissement, siamo ancora umani? Vogliamo essere felici? Da tali domande, si alza una voce: la voce di Mariapia Crisafulli. Dalle macerie del mio essere, dai ricordi che non mi abbandonano e si fanno casa, dai reperti quo-tidiani che tanto più cerco di nascondere nell’abisso del mio sguardo quanto più riaffiorano, Crisa-fulli mi indica che IO posso rinascere. Come la storia rimane / e ricomincia, allo stesso modo io rimango e posso ricominciare, sicché nei volti dispersi e ammassati / tra le banchine e i sottopassi posso scorgere i sogni, l’umanità di individui ridotti “a una dimensione”, e di lì essere me stesso e nessun’altro. L’individualismo, libero dalle catene del narcisismo, si traduce dunque in un amore autentico per se stessi che, anziché schiacciare e assorbire l’altro, lo rispetta nella sua “assoluta trascendenza”, ed è proprio tale forma di amore che può sovvertire un sistema che mira a renderci omologati, massificati, intrappolati in un “noi” generico o in un “si” impersonale che, in realtà, non vogliono dire nulla. In altri termini, l’affermarsi della mia individualità può condurre alla ri-voluzione, e la stazione, da tradizionale luogo di smarrimento, può adesso strutturarsi come il luo-go in cui Io posso assumere consapevolezza di me stesso e intercettare i volti degli altri, quei volti rubati che mi implorano di non lasciarli soli e verso cui sono chiamato a essere responsabile. Detto ciò, se Io posso fare la rivoluzione, come posso tuttavia riuscirci? Fin qui si è parlato di ricordi, ma essi abbisognano di un qualcosa che li vivifichi, e quel qualcosa capace di rendere una memoria eterna è, come suggeriva Ugo Foscolo, la poesia. Con parole di gramsciana memoria, Crisafulli ri-corda che la rivoluzione da attuare deve essere, prima di tutto, una rivoluzione culturale, in grado di smuovere le coscienze dei singoli e quindi della collettività, e la poesia in tutto questo deve es-sere la prima a scendere per le strade, a parlare all’individuo senza parlare, a guidare il popolo come La Libertà “ritratta” da Eugène Delacroix. In considerazione, perciò, della visione e della missione proprie della poesia, l’autrice si impegna in un’accesa quanto ironica critica all’invenzione poetica dei “tecnici” e dei “sofisti”, che si cre-dono poeti per aver snocciolato versi colmi di artifizi e poveri di sostanza, e invita a un poetare che è, essenzialmente, un “fare”. Di conseguenza, una poesia potrà magari presentare un enjam-bement, un’anafora, uno zeugma – quello, a dircelo, saranno i sapienti –, ma prima di ogni cosa deve farsi azione, voce attiva per chi vive e probabilmente ha sempre vissuto in silenzio. È quindi in nome di quel film, per il filosofo e regista Pier Paolo Pasolini, e di quella poesia, per la poetessa Mariapia Crisafulli, che Io posso e devo fare la rivoluzione, individuando nella storia ciò che è sta-to rimosso e riportandolo alla luce per trasformarlo in realtà. Il passato, tra le altre cose, è uno dei fondamenti dell’agire, ed ecco che la poesia-azione è possibile soltanto a partire dalle rovine e dal-la “ricchezza” della polvere, poiché è soltanto da ciò che è stato che posso dare senso e forma all’inconscio della memoria collettiva, a quelle storie dei vinti che non sono mai / Storia. Ci sono tradizioni di individui e popoli oppressi da scoperchiare, vite che devono essere raccontate, pagine di storia che devono essere scritte per non dimenticare, per essere eterne come eterna è l’arte poe-tica. La vita là fuori è appunto questo, la vita di Crisafulli fatta poesia, ‘vita immortale’ che si con-segna ad altre vite. Dal punto di vista stilistico e in accordo con il fine pratico che dovrebbe avere la poesia, i giochi retorici lasciano il posto a una scrittura sincera, asciutta, diretta, tant’è vero che poesie come Ca-tania non si limitano a descrivere uno stato d’animo o a raccontare una situazione, bensì scavano talmente in profondità dell’animo umano da coinvolgere appieno il lettore, come se i luoghi e i fatti vissuti dall’autrice li stesse vivendo lui in prima persona. La luce soffusa della lampada sul comò, l’odore del mosto cotto, un centrino all’uncinetto: in un fervido quanto intenso flusso di co-scienza, ogni poesia si arricchisce di dettagli che contribuiscono a renderla concreta, quasi “più reale della realtà stessa”. E però, se da un lato l’intimismo poetico consente al lettore di entrare in empatia con l’autrice, dall’altro potrebbe rischiare di disorientarlo, complice anche uno stile erme-tico che, perlomeno all’inizio, rende la lettura delle poesie meno scorrevole di quella che dovrebbe essere e implica in chi legge un maggiore sforzo di comprensione. La risposta ad alcune questioni viene infatti lasciata ai singoli lettori, i quali potranno ad esempio chiedersi il perché di quella pa-rentesi quadra che si apre e non si chiude o il perché diverse poesie siano sprovviste di un titolo che ne avrebbe sicuramente semplificato la citazione; ciononostante, la raccolta si presenta nel complesso coesa, e tutte le poesie sono legate insieme dall’inesauribile volontà dell’autrice di dar-si e condividere una parte di sé con gli altri e con il mondo. L’utopia, che non è utopismo, diviene in conclusione quella realtà possibile grazie alla quale i volti seduti / sfocati / consumati / di cui si è prima parlato possono diventare volti assorti / insorti, “generazioni contrarie” a un’industria che li nullifica e li mortifica. Per questo e per tutti i motivi sovraesposti, La vita là fuori rappresenta il percorso di vita, crescita e rinascita di Mariapia Crisafulli, dalle “notti del pellicano” trascorse tra la rabbia che spacca costole dal petto e il tremore che fa assomigliare a foglie / che passiscono sui rami alla “Tregua”, alla “Resilienza”, alla consapevolezza che i propri occhi anche da spenti / sono l’immagine del cielo. Di qui, confidando in quella luce che attraversa la notte, l’autrice intende spronare gli altri a vivere, a crescere e a rinascere a loro volta, perché al di là dell’immaginazione, qui e ora, è possibile la rivoluzione quale liberazione del singolo e concreto individuo. Come scrisse Pirandello, “il treno ha fischiato”: per davvero.
Emanuele Mangione
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