Mariapia L. Crisafulli: una voce tra classicità e presente
Nei versi di questa giovane voce ritroviamo una adesione al senso della vita e dell'esistenza al contempo esigente e disincantata. Una fortunata formula, «Pessimismo della ragione, dell’intelli-genza, della visione del mondo (Weltanschauung), ottimismo della volontà» (da ultimo impropriamente attribuita ad Antonio Gramsci, ed in realtà usata da Romain Rolland, ancor prima da Friedrich Nietzsche, ed originariamente enunciata da Jacob Burckhardt) connota il quadro ispirativo, le scene, i motivi della poesia di Mariapia Crisafulli. Una Weltanschauung, visione, o concezione, del mondo, è un termine usato spesso nel campo della cultura tedesca, sia in ambito letterario che filosofico, indica un orizzonte concettuale, ma anche un modo di sentire, di percepire e guardare il Mondo: in tal caso – e mi piace aver fatto il nome di Burckhardt, grande esaltatore del Rinascimento e dell'Età Classica - nell'equilibrio tra le due polarità di tale visione, con chiari e marcati rinvii al mito classico, si situa il canto e il pensiero di questi versi. Un mito (Ulisse, Nausicaa, l'Ananke, la tela di Penelope, tra gli altri) che si fa archetipo del presente e in cui la riflessione introspettiva, personale (il ricordo, il libro sul comodino) o sociale, si fa mito che sostiene e interroga. I versi di Mariapia esprimono il suo essere lettrice e poeta dalla curiosità onnivora in cui accanto ai dichiarati Carducci, Pavese, Qua-simodo, e ai citati in exergo Kavafis e Pessoa, senti l'eco di voci legate alla classicità come Ungaretti, Shelley, Foscolo, Leopardi, per temi e per assonanze, per temperamento acquisito e per sorte nativa. Le metafore della contemplazione e del viaggio (Itaca, ed oltre, Odissea), e, al contempo, l'interrogazione costante sui topoi minimi della quotidiana esistenza e delle sue domande di senso, in questi versi si esprimono con una estrema godibilità di lettura, con una colloquialità che rende iluminante il voler rappresentare un io dentro un noi del mondo e dell'universo, con le implicazioni metafisiche che ciò comporta, e si aprono alla meraviglia, allo scarto, all'acuto ina-spettato, diremmo musicalmente, con guizzi improvvisi come «È tardi,/molto tardi./È quasi presto», a segno di una ciclicità in cui si sa di essere ben inseriti, nell'infinito oltre le finitudini particolari. O segnano la consapevolezza dei limiti dell'umano, probabile e nobile retaggio leopardiano («L’umano che passeggia tra i miei fiori,/ che li scansa e all’odore starnutisce /– lui non lo sa – /è allergico a sé stesso»). Ed è davvero di grande effetto come, in una poesia ricchissima di riferimenti letterari, di citazioni tratte dalla poesia “alta” della tradizione occidentale (ma non solo, vi è anche traccia di interesse per le culture orientali, in specie giapponese, dalla cui letteratura propone una sua versione), l'autrice, con semplicità, in realtà solo apparente, risce a inserire elementi colti ed archetipici nei suoi versi, accanto alla meditazione e all'epigrafe di un momento, la microprospettazione poematica accanto all'idillio mancato e alla dedica. Mi torna in mente un grande poeta, irlandese, William Butler Yeats, che nella dimensione “artigianale” della poesia, cioè nell’attività del poeta che cerca il bello secondo le tecniche che gli avi gli hanno tramandato, ravvisava “il fine della mente che opera in segreto”. Mi pare un dettato implicito che possiamo applicare alla poesia in genere, e a questa in particolare, dove non a caso è centrale la figura di Ulisse, l'uomo, di ascendenza divina, che cerca e va, e nel viaggio stesso ha la sua unica meta, anche quando giunge ad Itaca, con la praticità dell'uomo comune, dell'artigiano che crea il proprio talamo nuziale sul tronco dell'ulivo. Un'Itaca in cui ciascuno di noi ulissidi mai smette di interrogarsi, sperando/disperando, nel ciclo dell'essere. Una poesia, questa, che non teme il “sublime”, saldamente legato alla tradizione lessicale della nostra tradizione estetica, con un affidamento coraggioso alla tradizione sia antica che contemporanea (in fondo ciascun poeta rivive e restituisce rivivendolo ciò che ha ricevuto da chi in poesia l'ha preceduto). Ma sempre con una estrema cura al microcosmo di cui si è parte, in cui l'esigenza del rapporto con l'Altro si impone, sapendo bene che l'Io è anche l'Altro, è prodotto fraterno della relazione tra umani («Quando verrai,/ porta con te i tuoi silenzi; / ti prometto che saprò dargli parola./ Porta anche il nulla, se vuoi:/persino quello mi basta./ Purché tu venga./ Purché tu ci sia») pur nella consapevolezza del limite degli umani, ma senza temere che il sentimento si faccia relativo e transeunte («Ma io ti aspetto/ ai confini del tempo»), in una visione che davvero si fa di metafisica e morale potenza («Io sono tutto ciò che non sono./ E tutto il mondo è un indomito/ potrebbe essere»), in cui necessità e teleologia avvampano. La ciclicità dell'esistenza umana, tipica dei classici amati dall'autrice, come dei moderni (Vico, Nietzsche, ma anche grandi poeti che alla fonte della classicità si dissetarono come Heine e Holderlin) si fa il tratto pregnante della intuizione di un attimo, di una rivelazione dell'esistenza a se stessa («Disattendo le attese/ trovando qualcosa/ da disfare./ E poi passo le notti/ a riempire spazi/ che traboccano./Ma domani è già ieri/ da parecchi giorni»). Ciò fino alla visione ben chiara della vita di ciascuno («La vita è una battaglia con il mondo e un armistizio con sé stessi; è un lungo viaggio in mare aperto tormentato da bufere. Un mare in cui si naufraga ma mai si affonda, perché solo così imparerai a nuotare: toccando il fondo, restando in apnea, per poi risalire su»), dal quale emerge l'antico e sempre riemergente retaggio paolino, la “spes contra spem”, di cui siamo figli, pur nell'equilibrio e nell'armonia che la classicità ci consente e ci offre, anche nelle minime illuminazione delle riflessioni interiori.
Enrico De Lea [Poeta]
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