La poesia come azione politica e forma di resistenza
in Maria Grazia Calandrone
Ciò che più colpisce di Mariagrazia Calandrone – leggendola e, soprattutto, ascoltandola – è la sua particolare connivenza (com-passione) con l’Uomo: l’esser-ci, individuale quanto collettivo, che si muove nel mondo, che la Storia la fa e la subisce, ora vittima ora carnefice. Qualsiasi cosa riguardi l’umano, rimaneggiando Terenzio, alla Calandrone non è mai estranea; anche se latente lei la intercetta e la assorbe grazie al suo sguardo sempre aperto sulla realtà, il palcoscenico del (con)vivere, del morire, del distruggere, del resistere di ciascuno. Si tratta di una realtà, attuale o storica che sia, relativa, che in molti rischiano di confondere o non comprendere, travisandola, estraniandosene; che alcuni tentano di disconoscere, se non manomettere, quando gli fa orrore, o peggio, se gli fa comodo. E che lei, poetessa dichiaratamente impegnata, si impone di riconsegnare, scevra, nella parola. I versi della Calandrone sono per questo versi preziosi che ci guardano e ci riguardano: a una lettura attenta e consapevole si rivelano, infatti, accorato e fedele memoriale – fotografia – della storia come della contemporaneità in cui tutti siamo immersi. Sono versi politici. Secondo la sua visione il gesto poetico stesso è, intrinsecamente, un gesto politico. L’aggettivo politico non ha nulla a che vedere, qui, con la dimensione ideologica del credere e dell’agire di singoli o compagini: politico è un qualcosa che coinvolge tutti e a tutti chiede di sentirsi coinvolti, responsabili; di essere parte (in causa) e prendere parte alla dimensione collettiva dell’esistenza. Tocca a ognuno riaprire gli occhi sulla realtà e sporcarsi le mani nel mondo, dove l’indifferenza, la trascuratezza e l’individualismo, in un forma non sana, sembrano ormai dilagare. Tocca soprattutto ai poeti (Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo[1]), che devono tornare a essere testimoni attivi del reale, militanti. Rivolgendosi dapprima a se stessi, d’accordo: al proprio vivere, ai propri trascorsi (mi commuove, ad esempio, il modo in cui la Calandrone consegna i suoi ricordi alla carta.)… per poi uscire fuori, però, e incontrare gli altri, interagire con le loro glorie e tragedie di esseri umani “gettati nel mondo” e non sempre r-accolti. Così da respingere ciò che la Calandrone definisce fascismo naturale[2]:l’istinto rettiliano che davanti a ciò che percepiamo come diversoci tenta nel riassumerci in un io, in un noi; nell’erigere barricate che ci discostino sempre più dall’altro (abbiamo vite /armate /per non riconoscere la nostra paura nella paura /degli altri, il nostro /respiro nel respiro /degli altri[3]),arrivando a negargli parola, storia, identità. Arrivando quasi a snaturare la nostra stessa essenza di Uomini. Ogni uomo è una parte del tutto, la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, scriveva John Donne, rammentando quanto la campana di ogni singola perdita o personale tragedia tuoni, in realtà, sull’umanità intera. Io sono gli altri, scrive Maria Grazia Calandrone, rammentando che ogni identità individuale, ogni Sé – sulla scia di Cooley – esiste come tale in virtù dell’esistenza di un altro in cui riconoscersi o scoprirsi; è il risultato di un inevitabile confronto con esso, elemento di un’unica specie, espressione della stessa Natura, che è quindi da accogliere e mai da sminuire o scacciare. Il gesto poetico di Maria Grazia Calandrone si realizza in una produzione ampia, coraggiosa, che coniuga lirismo e cronaca, bellezza e morale, amore e politica (“amore circolare, etico”[4]: siccome nasce come poesia d’amore /questa è poesia politica[5]), introspezione e attivismo – il riscontro con Pasolini è inevitabile – ; immagine mobile di un unico grande occhio: quello di Donna oltre che poetessa, giornalista e drammaturga, che osserva, ama, si batte, indaga. Che sceglie di raccontare e denunciare il presente, la sua complessità meccanizzata, le sue contraddizioni contro-umane, come appendice di un passato da interrogare costantemente e radice di un futuro da costruire con fiducia, rintracciando, quasi osservatori davanti Guernica, il fiore nuovo che emerge dal disastro (Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi[6]).Che prende posizione e si impegna socialmente, politicamente: da diversi anni Maria Grazia Calandone porta la poesia in radio, nelle scuole, nelle carceri; la diffonde, curando laboratori, tra pazienti affetti da Alzheimer, tra migranti, tra superstiti di nuove guerre non finite, ai quali, molte volte, dà voce nei suoi testi. Tra la gente, stando in mezzo a essa. Con la missione di e-leggerla, la poesia, quale forma di resistenza all’odierna “civiltà della prestazione”, alla barbarie, al disincanto (guarda le cose /con dolcezza /e con dolcezza tu verrai guardato /dalle cose: /con la tua anima /imita le cose /tu, che sei mondo[7]). Perché la poesia, perché i poeti devono aiutarci a muoverci nel mondo e per il mondo consapevolmente, da animali politici come anche morali. *Nota critica pubblicata in Secolo Donna 2020 – Almanacco di poesia italiana, B. Vincenzi (a cura di), Macabor, I ed. 2021 [1] Vittime [2] MadreAlfa [3] Queste mani tenevano la loro creatura sopra l’indifferenziato del mare [4] Maria Grazia Calandrone in un’intervista [5] Contro l’esilio [6] L’idiozia o lo splendore della bellezza [7] Un semplice esercizio di libertà Annunci
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