per l'opera "ASCENSIONE" 2020 -
Se c’è qualcosa che sembra connaturale alla pittura di Anna Maria D’Amico è il fatto che il suo lavoro non si attiene agli usi e agli standard cui sarebbe ovvio associarne le immagini più perspicue. Il titolo dell’opera in mostra, Ascensione, è rivelatore di questa direttrice di marcia dello sguardo – e del senso cui conduce, giocando d’anticipo o in piena sincronia fra visione e messaggio, in cui indicazione visiva e voce all’indice segnano un unico ritmo: che è di una sublimazione in cui si mostra in ogni cosa una presenza che va oltre l’aderire a un modello, reale o ideale che sia, per suscitare reminiscenze (scontate) d’obbligo o nostalgie (a bacchetta) di sorta. Un particolare può diventare un simbolo o se è già codificato come sigla, finire per assumere una valenza autonoma, non di gadget legato a un’occasione, a un luogo, a un grado di consapevolezza: piuttosto, un depistare dai sentieri consueti. Penso alla serie di pitture da A. D’A. portata a termine anni addietro sul tema delle capitali d’Occidente. Un discorso non sulle metropoli e la loro fine o la fragilità che scopriamo nel modo più traumatico, ma una parabola sulla pittura come fonte di legittimazione dei segni o loro riqualificazione, se vogliamo dire così, ambientale – in rapporto, cioè, con il ‘colore locale’ di un’epoca. Una foschia da smog che precipita o si accompagna a ogni stereotipo deponeva le coordinate in cui leggerlo: su tutto, un nevischio tra favola e erosione conseguente un ‘clima’, come suol dirsi, storicamente minaccioso/minacciato: a immagine sostitutiva di color che son sospesi – un Big Ben a muro, il ponte di Brooklyn che si tuffa nell’aria come per scampare a un agguato che sta per scattare o lanciato in una corsa all’ultimo respiro contro il tempo che viviamo; la Tour Eiffel pronta a spiccare il volo fra le nuvole; il Colosseo come un cerbero – la lupa e il suo branco – in muratura, dagli occhi sbarrati e allucinati. Questo spostamento che è Ascensione, pertanto: di un modulo replicato annodandolo in una trama come avveniva con gli edifici e monumenti delle metropoli decadute di un Occidente sempre più smarrito, ai margini delle geografie odierne del potere globale: inconfondibili e unici, quelli: ma lo stesso vale anche per ciò che si ripete come un motivo non ornamentale: e semmai, una ossessione apotropaica di ogni cedimento a una pandemia combattuta con questa omeopatica pandemia grafica. A. D’A. stende una rete di protezione o una fioritura in cui il colore varia da un viola quaresimale – il dipinto è stato realizzato nel corso della Settimana Santa 2020 – a un bianco che ne è la propaggine estrema, senza esserne esito ‘salvifico’: una processione all’interno del colore in un’ascesa che trova appiglio in quel logogramma: o un percorso da colore a colore senza che ne sia mutata di rango la blanda ostinazione, la ribadita dedizione a un segno del destino che è essa un destino – la pittura come ‘distanziamento asociale’ dal panico quale collante ‘civile’ di un’atomizzazione responsabile e approssimazione per eccesso di fiducia nell’umanità resiliente ancorché r-esiliata, fra lockdown e areaa colorate del risiko dei contagi. Rocco Giudice.
Rocco Giudice [ Critico d'Arte]
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