per la mostra "Sergio, il Leone d'America" 2019
L’universo di un artista è una dimensione critica, ogni tentativo di interpretazione è un dato puramente soggettivo, ma condivisibile. Le analisi più dotte appartengono di diritto a quel lignaggio spurio di approssimazioni stilistiche e storiche, cesellate su perfette costanti di riferimento; tuttavia, soffrono di eccessivo garbo formale che ne compromettono la spontaneità, riducendo i margini dentro i quali assolvere una singolarità espressiva. Tenterò di descrivere il lavoro di Anna D’Amico. Lo studio di questa artista si trova a Mascalucia, paese posto sulle pendici dell’Etna. Mi reco lì. In prossimità del borgo, la strada che percorro costeggia il versante sud-est del vulcano. Il susseguirsi di curve e rettilinei è un costante alternarsi di luce e lampi, di silenzio. Inabisso ogni tensione tra le note minimali che l’enigmatico genio di JóhannJóhannsson frammenta in “Theybeing dead yetspeaketh - pt.2 (per la cronaca, una perla tratta dall’impescrutabile album “The Miners’ Hymns”). Il pensiero si adagia in un susseguirsi di boschi frastagliati e rigogliosi – a mo’ di flash – di brulle sciare, ocre distese in grado di dissolversi verso ogni orizzonte, oltre il quale l’eternità è solo un lieve azzurro. Faccio mente locale. Ripenso al progetto di Anna: presentare una serie di studi che rivisiteranno alcune scene tratte dai film che resero immortale la fama di Sergio Leone (“Il buono, il Brutto e il Cattivo”, “C’era una volta in America”, “C’era una volta il West” ed altri), per offrire un tributo alla memoria del regista romano, in occasione del trentennale della sua scomparsa. Inizio ad immaginare come una minimalista formale, quasi protesa a sfiorare l’espressionismo astratto, possa risolvere un computo antitetico: la codifica di fotogrammi “pop”. Un dilemma. Il genio è mistero. E’ un caldo pomeriggio siciliano. Visito i lavori di Anna. Le tavole sono timidamente composte su una educata parete, accarezzata dal sole radente. Scopro la tensione, misurata e costante, vibrare su ogni superficie pian piano scoperta. Si fa fatica a immaginare Anna, questa affascinante e minuta artista, domare quella spessa coltre di colore, sino a farla risuonare in un profumo di luci ed umori. “Scansiono” le opere (prive di titolo, solo sequenze numeriche che identificano questo o quel film). Esse interpretano un mondo dove Dio è il muto testimone di un’Odissea senza fine e gli uomini i protagonisti di un eterno duello tra speranza e morte. Antologia di diafane apoteosi umane, i quadri intrappolano aride distese, smorfie di dolore, istanti che precedono lo scontro, o il duro sudore che piega le schiene. La matericità delle tavole si dispone su fitte trame che si sovrappongono, si intrecciano e si irradiano, nei multiversi, creando impercettibili movimenti, sensazioni differenti, al variare della luce. La D’Amico, che in alcune circostanze potrebbe essere individuata come una purista tonale, questa volta presenta una tavolozza (ed una composizione) meno consueta, cromaticamente impostata sulle terre alte e sugli azzurri leggeri; il tutto magistralmente dosato dai bianchi, sottolineato da esiti di “terre profonde”. Pochi – necessari – i timbri più accesi, “avvicinano” la struttura. La sua frammentazione cromatica – quella cara a Sarnari – richiama alla mente il lavoro dei suoi colleghi di studio, Piero Zuccaro e Giuseppe Puglisi, certamente meno quello di Luciano Vadalà. L’interpretazione di Anna non tradisce l’idea del regista, semplicemente la riorganizza da un altro punto di vista: la lenta e disarmante profondità di campo, le surreali scene del duello, la presenza di personaggi oscuri, sarcastici, i primi piani che lasciano scoprire la drammatica ambiguità di chi vuole sopravvivere, sono ancora tutti lì, ma più distillati, quasi fossero isole di memoria. Gli stessi ingredienti scenici li ritrovo anche nel contraltare espressivo che offre il video del bravo Toti Condorelli. L’avvicendarsi di vari frame – sapientemente amalgamati in quello stato di grazia che Morricone regalò alla leggenda – restituiscono un impianto metafisico, che è denuncia: il libero arbitrio è la legge del più forte, l’eroe non è bello, né buono e la frontiera resta una profondità priva di luce e di ragione. Alla mostra - così - si accederà secondo due diverse dimensioni, che avranno la prerogativa di impossessarsi dell’atmosfera e creare un caleidoscopio di sensazioni. Vedremo l’effetto che fa! Percorro a ritroso il tragitto vulcanico. La musica è sempre “The Miners’ Hymns”, sotto il sole è sempre dramma e frontiera: l’uomo, quell’ombra evanescente che incede a capo chino sul campo da lavorare, pronto ad offrire a Dio un nuovo patto. Sospiro: Ho un sussulto! Sorrido. Le opere di Anna continuano ad abitare nel cuore. Qualunque sia il luogo, la matrice della nostra dimensione non cambia; lo sapeva bene Sergio Leone, che regalò un nuovo neorealismo al granitico orgoglio americano, lo sa bene Anna, che percorre in monastico silenzio le vie dell’anima. Sebastiano Grasso Giugno 2019
SEBASTIANO GRASSO [Artista e Critico d'Arte]
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