THEME FROM A IMAGINARY WESTERN… per la mostra "Sergio, il Leone d'America" 2010
… Si potrebbe dire, con una vecchia hit dei Mountain di Leslie West. Pittura e musica unite in un omaggio a un Maestro del cinema e si vorrebbe dire, al suo equivalente sonoro – il termine non vuole essere riduttivo: non si tratta di ‘commento’ sonoro, ma di una sorta di fusione con il paesaggio e con le vicende filmate –: questo, in sintesi, il tema della mostra “Sergio, il Leone d’America”, della pittrice Anna Maria d’Amico e dell’artista audio-visuale Toti Condorelli, esponente del gruppo rock Novel Toy, alla galleria L’Arte Club, di Franco Cappadonna, in via Caronda, 58, a Catania. Una mostra che è come un viaggio di ritorno a uno dei maggiori rappresentanti del cinema e dell’immaginario cinematografico, ma ponendosi oltre gli itinerari canonici e obbligati dell’adesione filologica al testo e al tema, musicale e visivo: e questo, per fortuna, non per scelta e volontà degli artisti, ma per la natura stessa dell’operazione, di linguaggio innanzi tutto e pertanto, nel rispetto del codice d’avvio, per così dire. Quelle di Anna Maria D’Amico non sono trascrizioni/trasposizioni pittoriche di fotogrammi scelti a caso o con cura da una diligente amanuense: lo stesso si può dire per gli interventi musicali di Toti Condorelli. Nel caso di Anna Maria D’Amico, codice e medium implicano una riduzione/condensazione dell’immagine al suo nucleo duro rispetto alla finalizzazione narrativa e cioè, dinamica. Il cinema in pittura ha a che fare, in questi lavori, con memorie che arrivano da un più lontano mondo della visione: e dunque, col mito. Non è un caso se le opere esposte da Anna Maria D’Amico richiamano affreschi pompeiani ritrovati, mosaici sbreccati di qualche sala destinata ai simposi, l’encausto sbiadito di una necropoli o l’immagine proiettata su un muro di scene evaporate in una tragedia nucleare. In effetti, in questa serie di dipinti di Anna Maria la sovrapposizione fra orizzonte di ripresa, schermo di proiezione e tela dipinta si traduce in interferenza/intermittenza/interazione che fa sgranate, sfocate le immagini, assorbite dallo sfondo, dissolte dal movimento di macchina, dell’occhio e del polso, ma anche dalle variazioni della fantasia e del ricordo cui associamo scene, volti, paesaggi. Di questo movimento contestuale e a più livelli, le pitture registrano le spinte, le sfasature, la profondità di campo che si riversa e trasuda dalla superficie dipinta lasciandone sedimentare l’energia in una densità materica che ha con sé la sensazione di pesantezza, di pervasiva grana di scenari polverosi, di rocciose vastità in cui la tensione dinamica-cinematica condensa nello spessore grumoso e agonistico dei colori. Sul piano operativo avviene, dunque, quanto accade a livello simbolico: Anna Maria D’Amico ripropone il rapporto col monumentale, con la super-connotazione di simboli delle metropoli di oggi, in una precedente serie di lavori, così come dei santuari naturali dell’immaginario di ieri o di sempre, nell’occasione. Questo costringe a scoprire nelle icone di una città come nel repertorio iconografico del cinema o dell’immaginario cinematografico le stratificazioni di un mito: ma per lacerarle con lo schermo e così, smascherare quel mito alla luce delle trasformazioni in corso nell’epoca dei selfie e dei video-giochi alla Red Dead Redemption. Analogamente, Toti Condorelli ha selezionato alcuni frame dai film di Leone, con in sottofondo tracce sonore, grafismi acustici, scansioni audio, moduli ritmici che si ripetono e variano come nell’arte seriale in funzione di una valenza percussiva quasi sciamanica. La musica deve evocare la profondità ‘sonore’ degli spazi silenziosi del West: mentre le immagini devono riflettere il buio della sala cinematografica e insieme, fondervi quanto proiettato schermo. Nella luce dello spazio espositivo della galleria, le manipolazioni audiovisive di Toti Condorelli assumono il valore di un sogno a occhi aperti: del negativo di un sogno, del cinema di Leone come di un mito perduto, di una nostalgia che va oltre il cinema, ma che era già del western di Sergio Leone – c’era una volta il cinema, si potrebbe dire: e oggi, possiamo dirlo con qualche ragione in più. Spazi di deserto o prateria o di giungla urbana come set allo stato naturale: in cui il cinema, come l’uomo, giungono a cose fatte. L’epica, a quel punto, consisteva in un impossibile ritorno alle origini, al mondo com’era prima del racconto: da questo, la musica dirompente, da mezzogiorno (di fuoco) del giudizio, di Ennio Moricone: e l’ironia picaresca, dichiarata fin dai titoli (“Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più”, “Il Bello, il Brutto, il Cattivo”, ecc…), inscritta nella natura stessa del racconto, quello di un paesaggio già abitato dal cinema e che presuppone, però, un paradosso più profondo: non si può scoprire quel che preesiste all’uomo, l’ignoto è la casa dove l’uomo si perde o si ritrova. In questo immemorabile dramma, la forma del destino ammette, come l’identica cosa o il verdetto di una legge superiore a quelle umane, l’innocenza e la morte. Infine, un apprezzamento merita l’allestimento scenico di Franco Cappadonna, attivo partecipe dell’avventura degli artisti che promuove: la sala espositiva come clone fra sala cinematografica e set, con i moduli dello scultore Salvo Russo disposti quale sedili/selle per un viaggio nella nostalgia del cinema nell’éra di Netflix, Blockbuster, dei film in streaming. Rocco Giudice Giugno 2019
ROCCO GIUDICE [ Critico d'Arte]
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