Per la mostra "Glorie Velate" 2014
Ci sono immagini che sembrano in grado di resistere a tutto, al brancolare della memoria nell’affollato repertorio dei secoli come al logorio del cliché offerto all’immaginario collettivo corrente e anche alla fine delle realtà che a queste immagini associamo. Anna Maria D’Amico si cimenta con i simboli riconoscibili delle città (e dunque, della civiltà) dell’Occidente, dalle capitali d’Europa alle nuove capitali di un orizzonte che proietta altrove la luce che ne riverbera, rifrangendola in coordinate più vaste. Il Tempio della Concordia di Agrigento e il Colosseo, la Cupola del Brunelleschi come la Cupola di San Pietro, opere d’arte e insieme, allegorie e fattori di identità non solo urbane, sembrano non appartenere neppure al mondo che evocano o che l’arte evoca per loro. Se le città scomparissero, resterebbero questi simulacri, reperti onirici con una loro autonomia nell’immaginario globalizzato, più che onfali attorno a cui coaguli un territorio in cerca di identità, una storia salvata da qualcosa che ne attesti la continuità senza sottostare alle sue leggi. Perciò, nel misurarsi con essi, quella di Anna Maria D’Amico appare una (insidiosa) prova di resistenza alle suggestioni che ne emanano. Sono lavori che sembrano situarsi sul crinale, anzi, darci una mappa del passaggio da archetipo a stereotipo, ricalcare la parabola – fascinosa o favolosa, nella teca di un display o nella bolla di vetro da ribaltare per scuotervi nevischio o pixel – dal déjà vu alle stimmate di un’arte che va dall’Impressionismo nelle sue varie declinazioni a certe iconografie pop, mentre il Big Ben s’incide nel pulviscolo di una nebbia rappresa che ricordavamo fluttuare in Turner. Il Cristo del Corcovado e il Colosseo, la Torre di Londra e la Tour Eiffel non possono esseri resi come un semplice dato visivo o il dettaglio più notevole di un paesaggio urbano, ma neppure costituire un effetto visionariamente vissuto in proprio, il riflesso che producono in chiunque si trovi a osservarli e nell’appropriarsene, ne fa l’espressione della propria interiorità: tutto ciò sarebbe privo di interesse. Perciò, nelle opere in mostra, Anna Maria D’Amico colloca questi simboli in un elemento che non è né atmosferico né luminoso, ma, innanzi tutto, pittorico, perché relativo a una forma, a una sua perfezione geometrica, a una potenza espressiva che, sancita dai filtri corrosivi e linfe vitali degli sguardi che si sono depositati su quei simboli come una patina che vi si è fusa e non può più esserne separata, gli conferisce l’aura di un’arte che l’arte contemporanea sembra avere dimenticato o perduto: come fossero l’ultima species di città immaginarie o invisibili, scomparse per effetto magico del simbolo che ne suggella il miraggio o sopravvissute alla civiltà dell’immagine che le “consuma.” Quello che vediamo non è un riflesso della memoria visto in dissolvenza, ma un simbolo, un emblema fissato tramite lo spessore materico (segnico) dei colori quanto con la vibrazione (materica) dei segni. Come se il Tempio della Concordia avesse la pelle, la Tour Eiffel rivelasse, nella ruggine, la carne (di cui ha la plasticità e il turgore) dei sogni in cui è entrata attraverso immagini di arte e letteratura e quindi, cinema, tv, foto, video-telefonini e di cui fosse la sedimentazione organica, il risultato della fusione della limatura che l’ha spolpata del ferro per farne pura immagine, materia grezza e d’altra parte, fantastica o ludica di una reincarnazione onirica; e il Ponte di Brooklyn fosse una pianta cresciuta a forza d’aria, acqua e albe in cui i pilastri si levassero, scriveva Hart Crane, come le ali del gabbiano che si riscuote dal suo sonno ondeggiante. Novembre 2014 recensione rivolta alle opere 2013 - 2014
ROCCO GIUDICE [Critico d'Arte]
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