Per la mostra " Opere Inedite" 2005
Lo aveva già notato Leonardo Sciascia: è stupefacente la fortuità di certi incontri in Sicilia. Questa terra è un’isola abitata da cinque milioni e passa di abitanti. Ecco perché i siciliani migliori sono quasi sempre scontrosi e non s’incontrano mai fra di loro. . . Esemplare, perciò, mi è parso l’incontro con Anna Maria D’Amico, personaggio che subito scambieresti per una delle tante studentesse bravine che affollano il liceo. Ha gli occhialetti e una voce bassa ed educata. Se l’incontri per strada, al massimo la penseresti in una manifestazione pacifista.
Ma, dopo, appena vedi i suoi quadri, ecco che t’accorgi di aver preso un’abbaglio e capisci che la D’Amico un’aggressività ce l’ha. . . . I suoi dipinti sono assolutamente frutto di un pensiero non remissivo; la sua personalità è davvero una personalità decisa. La “fortuità degli incontri in Sicilia”, appunto, come scriveva Sciascia…
Un talento, fra l’altro, che ha seguito fin dagli inizi un personalissimo itinerario. Nelle sue opere, infatti, si stendono lacerti di luce e di materia pittorica che in loro stessi trovano forza e giustificazione. . .
Il fatto, perciò, che la D’Amico realizzi una raffigurazione degli stati d’animo diventa di per sé un aiuto alla nostra conoscenza del reale, almeno di quello interiore.
Tutto questo si trova già in nuce nelle prime prove della nostra artista, quando disegna e colora forme umane che hanno la liscia superficie dei manichini, con qualche richiamo al De Chirico e al Carrà della metafisica. Ella, così, mette in evidenza una visione del mondo un po’ melanconica e non priva di oniriche inquietudini.
Ciò continua con le opere immediatamente successive, immergendo le forme del reale in una luce che in qualche modo le polverizza, con effetti apparentemente vicini a quelli del Divisionismo. Attenti, però! Nella D’Amico non si tratta della mera stesura del pigmento del colore puro. La sua è una cultura pittorica che ha già conosciuto la ricerca dell’informale. C’è, cioè, la luce e c’è la materia. Il quadro è sempre meno il ritratto di qualcosa e sempre più un universo in cui tutto comincia e tutto finisce. Il colore è colore. Ed è colore in quanto è luce. Ma, è colore anche quando è materia. Esso è materia che va ad ispessire il supporto, dove la stessa ombra che produce entra a far parte della rappresentazione.
Inseguendo la coerenza, la D’Amico poi arriva alla produzione attuale, operando al contempo una sottrazione ed una addizione. La domanda sulle leggi prime che sottostanno al concetto di visività pretende una risposta che non ammette equivoci. Ecco perché, se da un lato l’artista procede a sottrarre le forme dal campo della rappresentazione, dall’altro addiziona la consistenza luministica. Così, la pittura si pone come pittura e basta. Diventa, quindi, sinfonia cromatica, parallela alle sinfonie musicali. . . .
Ho l’impressione che in questo gioco persino la grammatica che comanda sulle variazioni vada cambiando col cambiare del colore dominante, realizzando delle vere e proprie serie all’interno della sua produzione.
Se prendiamo, per esempio, la serie dei quadri in giallo vediamo che questa cromia lascia emergere sottofondi più scuri, quasi un velo si fosse steso su di essi, a rendere ancor più misterioso il mistero dell’universo.
La stessa cosa non può del tutto dirsi per i monocromi in bianco. E’ vero che anche in questi si intravede una imprimitura più scura; ma il velo candido questa volta si addensa a coprirla. Le variazioni e le vibrazioni vengono da altro. Sono le stesse asperità del colore che ricamano ogni cosa di picchi di luce. Si ha perciò un inedito senso di profondità, una terza dimensione fatta di accenni ,di suggestioni, di illusioni che vanno assecondando una filosofia post-dadaista, secondo la quale l’arte sta negli occhi di chi la guarda e l’opera è il nobile catalizzatore di evocazioni. L’incresparsi dei bianchi diventa un latteo oceano; suggerisce profondità che poi sta a noi riempire con i nostri fantasmi.
Ancor diversa è la serie delle opere in azzurro. Certamente, anche qui la materia sottostante fa corrugare il piano pittorico; ma, c’è da aggiungere che gli inserti chiari, capaci di creare strisce luminose che vengono da fuori e vanno fuori, fanno diventare queste opere quasi delle istantanee di piogge cosmiche. Si va dai raggi alle striature verticali e parallele, alle scie che si incurvano come nubi. I tre piani di questi quadri sono fatti dagli scuri del sottofondo, dagli azzurri del mezzo e dai celesti chiari della superficie. In tal modo si richiamano l’un con l’altro, arrivando per paradosso (considerato che l’artista vuole rinunciare agli effetti fotografici) ad avere una terza rinascimentale dimensione, anche se nell’aria, giocata quindi non per convergenza di linnee ma per evidenze tonali.
Nei quadri a dominante verde, invece, il raggrumarsi della materia, in qualche modo vicino a quello dei quadri a dominante bianca, crea un fitto addensarsi di punti luce. Questi sono forse i più suggestivi, quelli che danno alla ricerca dell’ artista una modernità nella quale non ci sono banali richiami, ma intime affinità emozionali, nei confronti dei contemporanei.
In queste opere viene fuori la ricca simbologia che già era sostanziata nelle altre serie. Con tutta evidenza gli scuri sono la terra vulcanica che si pone severa e assoluta come dominio della natura, senza bisogno, né di alberi né di altri colori per affermarsi come paesaggio. Lì il nero è dato dalle ombre profonde e il bianco dalla luce che accarezza le vette. Esso è il più adeguato referente per capire il tormento dei pigmenti operato dalla D’Amico. . . .
En passant, vorrei dire che nei gialli domina la macchia e negli azzurri la scia, nei verdi e nei bianchi è il punto che diventa un infinito aggregarsi e disgregarsi. Esso poi si impreziosisce perché da lì traluce l’anima della D’Amico, o, se si vuole, una voce tenta di comunicare la sua idea di emozione e di bellezza, strappandola direttamente dalle sue viscere, come un figlio.
Ed è questo il fascino più grande, dato che i colori sono generalmente tenui.
Rappresentano il distendersi di una serenità invidiabile per qualcuno di noi. E per tutti degna della contemplazione pura, quella stessa contemplazione che, secondo Kant, è la vera sostanza dell’arte.
Salvatore Paolo Garufi
Maggio 2005
recensione rivolta alle opere del 2002 - 2003
SALVATORE PAOLO GARUFI [Critico d'Arte, direttore Museo Civico di Militello ct ]
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