Paolo Brenzini

Artista analogico/digitale

“Nacqui quando ero bambino”

Nacqui quando ero bambino; nacqui per caso.
Delle tante passioni di cui i miei genitori mi fecero innamorare, con l’esempio e con l’insegnamento, ve ne sono alcune che tutt’oggi mi porto scolpite nel cuore.
La prima fu l’amore per lo spettacolo, per il fluorilegio, per la scoperta, per il circo. Mio padre, amante dello spettacolo circense, mi portò sin quasi da neonato a vedere i circhi che rallegravano Genova alla fine degli anni sessanta. Praticamente in fasce imparai ben presto cosa volesse dire “avere il tempo del salto mortale”, cosa, che per altro, mi sono portato dietro nella vita. Eravamo divenuti amici della famiglia Togni, quella di Cesare in particolare. Da ragazzino, mio padre mi permetteva di passare le domeniche mattina al circo, mi metteva nelle mani sapienti di Ugo, il papà di Cesare, uno dei capofamiglia della ormai grande e smisurata “famiglia Togni”. Mi lasciava tutta la mattinata ad ascoltare le storie che Ugo mi regalava, facendo così di me, con fierezza, uno di loro. Divenuto adulto, non ho mai lasciato il circo, anche se per alcuni casi fortuiti me ne sono allontanato. Un’altra famiglia circense importante della mia vita è quella del Pietrino Rossi, altro artista famosissimo nel panorama del circo italiano. Da loro, in particolare dai figli Vladimiro, tutt’ora il mio migliore amico, e Clodomiro ho ulteriormente imparato quello che la gente comune, i gaggi, non sanno: la meraviglia del circo, dove ciò che appare difficile, in realtà, è estremamente facile e ciò che appare facile è, in realtà, estremamente difficile. Ho imparato il senso del tempo, quello che oggi fa parte integrante delle mie opere artistiche. Il circo della famiglia Togni e della famiglia Rossi, oltre che quello dei Nones-Orfei è stato, grazie al mio eccezionale babbo, la mia palestra artistica e la mia culla nella vita.
L’altra passione tramandatami è l’amore per le immagini, la fotografia e la cinematografia prima di tutto. Mio padre, appassionato di filmini, come chiamava lui la cinematografia casalinga, portava in vacanza una cinepresa, ed a me non restava che la macchina fotografica. Mi ricordo una vecchia Exakta vinta, disse mio padre, con i punti dei formaggini. Una fotocamera di plastica, custodia compresa, del formato 6 x 6 o 120 per gli addetti ai lavori. Le prime immagini di cui ho il ricordo dello scatto risalgano a molti anni fa. Avevo circa sei anni quando mi divertii, con quella fotocamera, a fare dei piccoli ritratti ai miei genitori. All’età di otto anni, per la prima comunione, mia nonna Michina, la madre di mia madre, mi regalò una splendita Olimpus Trip 35, una compatta 35 mm, si direbbe oggi, con la quale, di li a pochi anni, incominciai a vendere le immagini che producevo al circo. Penso, ancora ragazzino, ad una fotografia di Moira Orfei, detta Moira degli Elefanti... ed una di Fabean, una splendida trapezista del circo di Cesare Togni, Le mie prime fotografie le ho pubblicate all’età di 13 anni.
Da qui, l’inizio della mia carriera, prima come reporter, all’eta di 17 anni e mezzo presso il Festival del Circo di Montecarlo, poi come artista ed infine come tutor che insegna “teoria della fotografia e della comunicazione visiva” in modo molto particolare, partendo dalla pratica sul campo. Ho avuto innumerevoli successi pubblicando immagini in tutt’Europa, da Parigi a Berlino, da Montecarlo a Praga.
Poi la mia vita ha preso una piega diversa, più artistica, ho incontrato l’ingegnere Allegrini ed il suo “Dinamsmo Cosmico”, un movimento che sembrava fatto su misura per le mie opere. Da qui nuove immagini, dove la realtà rappresentata non è meno reale di quella canonica, è solo diversa.
Il circo, o meglio lo spettacolo da strada, quello considerato popolare e la fotografia, ecco le cose che mi hanno “insegnato il mondo”. Due, dei tanti doni che i miei genitori mi hanno voluto regalare.
Da bambino ho sempre voluto bene a queste due forme d’arte cosi diverse, ma cosi uguali in molti aspetti. Conobbi il tempo, quello del salto mortale, quello che lega indissolubilmente spazio e vita. L’immediatezza del “senza rete” che lascia lo spettatore “senza fiato”, per poi, dopo che l’artista ha eseguito il suo spillo, farlo acatare nella più profonda fantasia. Il tempo, letto in modo totalmente diverso da tutti gli umani, mi permette di mostrare le altre peculiari spazialità degli oggetti e delle azioni che il soggetto vive al momento del lungo scatto.
La mia fotografia deve molto al senso di immediatezza del circo, il mio circo, deve molto al senso di spazialità nato nel mio cuore.
Nacqui quando ero bambino... e lo volli rimanere.

Paolo BRENZINI

Formazione

Artista autodidatta, dal 1983 operatore fotografico presso i più importanti eventi europei di spettacolo circense, danza, teatro di figura. Dal 2000 ad oggi si dedica all'arte come concetto assolutamente astratto, firmando due manifest: quello del Dinamismo Cosmico e quello della Cyborgdiunamica Evolutiva, entrambi redatti dall'amico e critico d'arte Giosué Allegrini.

Tematiche

L'interesse e il concetto scientigfico di tempo, utilizzato per governare la visione delle situazioni e degli oggetti. Fotoforme astratte che fanno divenire il soggetto un tutt'uno con la superfice del pezzo artistico

Tecniche

Sfocatura da mosso su trasferimento termico su supporto piano

Quotazione

2000/2500 Euro pezzo singolo

Premi

Primo premio Robert Muller - Francia - per la fotografia - 1992
Secondo premio Roman Mutz - Francia - per la fotografia - 1992

Bibliografia

PAOLO BRENZINI ED IL LINGUAGGIO ASTRATTO-SURREALE-DINAMICO

Paolo Brenzini è, senza dubbio alcuno, un artista di qualità nel senso più puro e compiuto del termine poiché è in grado di coniugare assieme, in maniera assolutamente superba e con grande personalità, la propria straordinaria padronanza del mezzo fotografico unitamente ad una sensibilità fuori dal comune che gli consente di rappresentare le tematiche del vivere quotidiano, attraverso un nuovo e particolarissimo linguaggio visivo.
Non si tratta però di un linguaggio artistico segnico di tipo asemantico quale quello introdotto da Capogrossi nella seconda metà del novecento, piuttosto che foriero di pulsioni conflittuali del tipo di quello rappresentato da Carla Accardi, bensì di un linguaggio astratto-surreale-dinamico, carico di valori psicologici ed emozionali estrapolati da una matrice reale, in grado di catturare visceralmente il pubblico.
Questo artista-fotografo partendo da un mezzo espressivo ormai ultracentenario, ma sempre di grande attualità (soprattutto nelle proprie recenti declinazioni digitali) quale è la fotocamera, sembra voler sconcertare lo spettatore-attore proiettandolo in una particolare rappresentazione della realtà, rinnovata ed estremamente accattivante, che deriva dal dare, ad essa, la valenza del continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella loro variazione.
Partendo da una matrice futurista, con vaghe tendenze divisioniste, basata sul dinamismo cromatico dei fasci luminosi, magistralmente catturati e modellati mediante abili movimenti della fotocamera pilotata fra vortici, inviluppi e traiettorie iperboliche (alla stregua delle “compenetrazioni iridescenti” indagate da Futurballa, piuttosto che i “dinamismi plastici” di impronta Boccioniana), egli addiviene ad una particolarissima rappresentazione astratto-surreale-dinamica della realtà, grazie anche all’utilizzo delle sfocature, alla delicata miscellanea cromatica introdotta nelle proprie composizioni fotografiche, che il sapiente rapporto di tempi espositivi, fonti di luce e movimento della mano consentono di raggiungere.
Una sorta di scrittura personalissima è dunque quella introdotta da questo funambolico artista del mezzo fotografico che vede la propria carriera professionale iniziare, nel 1983 operando come reporter presso il Festival Internazionale del Circo a Montecarlo, per poi orientare la propria attività verso le produzioni televisive di RAI e Fininvest e quindi alle numerose pubblicazioni su riviste, quotidiani e libri, italiani e non, riguardanti il mondo dello spettacolo, inteso come rappresentazione ludica, ed al contempo coinvolgente, della realtà.
Dal duemila egli si dedica, invece, specificatamente alla ricerca artistica, impiegando nuove tecnologie visive, utilizzando, quindi, non solo la fotocamera ma anche lo scanner ed il telefonino per giungere a realizzare immagini concettualmente astratto-surreali di grande impatto comunicativo. Osservare queste immagini è come calarsi in un tempio dello spirito in cui spirali, traiettorie ardite e compenetrazioni cromatiche rappresentano un passo in una direzione mistica, dove spazio, tempo e forza di gravità non sono più celebrati ma vengono pressoché adorati.
Del resto migliorare il nostro vivere significa anche migliorare la percezione degli spazi che attraversiamo automaticamente senza rendercene conto: una luce, un colore, un suono se pensati e rappresentati con cura e passione, attraverso un suggestivo linguaggio espressivo, possono fare la differenza nella battaglia difficile contro l’alienazione urbana.
Le opere così realizzate non sono però frutto di elaborazioni grafiche digitali, tanto modaiole quanto scevre di sensibilità artistica. Sono estremamente limitati anche i tagli e le correzioni delle foto che comunemente si potrebbero effettuare in una camera oscura. Tutto ciò al fine di minimizzare ogni intervento esterno che possa modificare, e quindi falsare, il messaggio artistico che si intende rappresentare.
E’, come detto, comunicazione visiva nel senso più cristallino del termine quella introdotta da Paolo Brenzini che nasce, come asserisce lo stesso artista, “dall’esigenza di interpretare con il mezzo fotografico una realtà solo all’apparenza diversa da quella che tutti i giorni viviamo. La sfocatura da mosso, rende le immagini una sorta di vera e propria scrittura. Il tutto per dare emozioni”.
E di emozioni Paolo Brenzini ne fornisce davvero molte. La propria rappresentazione della realtà è tale per cui la contingenza viene ad essere rappresentata in una sorta di dilatazione spazio-temporale, tra passato presente e futuro, senza soluzione di continuità, in cui le forme paiono fluidificarsi, fra loro, per distendersi contemporaneamente nel “prima” e nel “dopo”, coinvolgendo così ogni sfera del vivere quotidiano.
Una sorta di inno alla libertà d’immaginazione, promossa dall’artista, di poesia visiva vera e propria, che rimanda ad un’interpretazione del mondo senza preoccupazioni di mera logica interna, e che conduce ad un terapeutico decadimento delle barriere artificiali, generate dalla modernità, che cercano di confinare e relegare i vari ambiti espressivi dell’uomo, in quanto essere straordinariamente urbanizzato.
Un’interpretazione quindi assolutamente dinamica spirituale e coinvolgente, oserei dire essenziale, dell’essere umano e della realtà che lo circonda (ben lontana dalle sgradevolezze dell’arte legate al kitsch del quotidiano, al senso di deterioramento e precarietà dell’esistenza umana, alle sue degenerazioni ossessive e violente sempre protagoniste negli ultimi anni), in cui arte e vita si confondono fra loro in una oscillazione infinita, spesso imprevedibile ed avviluppante, che l’artista–fotografo Paolo Brenzini sa cogliere con superba maestria e profondo lirismo espressivo.

Genova, 15 febbraio 2009
Giosuè ALLEGRINI