BREVE ROMANZO: “LA DAMA DALLA VESTE BIANCA”

2018

BREVE ROMANZO:

 

  

                        “LA DAMA DALLA VESTE BIANCA”

 

 


PREMESSA:

 


 

Il racconto non è frutto della fantasia dell'autore, fuorché per gli aspetti surreali che vanno oltre il limite terreno, ma non quello temporale, e che appartengono alla sfera dell'occulto. Per il resto, il protagonista Paolo, che è l’autore, ha vissuto realmente questa scioccante e drammatica esperienza. Della drammatica vicenda egli è stato ispirato, spinto da un impulso improvviso dell’animo, per la stesura di un racconto, sebbene un po’ romanzato. Una sua cara amica d'infanzia ebbe la sventura di vivere una cocente delusione, e che a seguito delle tracce sconvolgenti e vive, purtroppo, all'interno della sua mente, aveva cessato di amare la vita. L’autore non anticipa come si evolve il finale del racconto, e omette in questa premessa di svelare se esso ha avuto un lieto fine o esito infausto.

 

Roberto Zaoner

 

 

 


TESTO:

 

 

 

Paolo uscì dal suo posto di lavoro. Aprì l’ombrello che presto si bagnò per la forte pioggia. Salì in auto e intraprese la strada di ritorno a casa. Giornata marzuola dal tempo instabile, come sanno essere le giornate nel mese di marzo. Giornata piovosa, grigia e triste. L’inverno non aveva ancora perso i suoi effetti, ma la primavera sarebbe arrivata a giorni. Giunto sorridente nella sua abitazione, dopo essersi liberato dal temporale che lo accompagnò lungo tutto il suo tragitto, avrebbe voluto riporre al coperto il suo impermeabile appoggiandolo sullo stendino del balcone per farlo sgocciolare. Ma la moglie si precipitò verso l’uscio ad accoglierlo, con aria molto triste e con sguardi consolatori che manifestavano molta tristezza, ma taceva. Paolo dopo attimi di sorpresa, vedendo la moglie con fare agitato, entrò in un turbinio di sensazioni che non avevano nulla di buono. Presagiva qualcosa di grave. Chiese alla moglie cosa fosse successo in sua assenza. Mariella, oltre al grande dispiacere, doveva controllarsi e cercava di rimanere serena. Avrebbe voluto far pranzare Paolo con tranquillità e dare poi a lui la triste notizia. Cercava di correggere ogni suo gesto che poteva dare adito a sospetti, ma si era tradita col suo atteggiamento irrequieto. A Paolo non era sfuggita quella sua agitazione ed essere stato accolto dalla moglie con l’aria smarrita e molto preoccupata. E dunque il marito la incalzava nervosamente. Mariella non poteva ancora trincerarsi dietro a una maschera d’indifferenza e a nascondere a lungo ciò che sapeva. Era, peraltro, giusto che l’uomo sapesse e non rimanesse col fiato sospeso per una notizia che aveva tutto il sapore di un dramma grave nella sua realtà. A quel punto, la moglie decise di liberarsi da quel macigno di silenzi e a dare a lui la drammatica notizia. Svelò dunque che era successa una cosa molto grave. Ebbe notizia per telefono, da un fratello di una carissima amica del marito, che la sorella Elide aveva tentato il suicidio ed era stata condotta in ospedale, dov’era arrivata già in coma. Lo sguardo fisso e serio di Paolo verso la moglie si trasformò pian piano in un’espressione corrucciata e via via, sempre più nervosa e preoccupata. Faceva fatica a credere a quella notizia così drammatica. Il suo sguardo si era perso nel vuoto, ma si ridestò. Non volle neppure pranzare con la moglie e i suoi figli e si precipitò, con il soprabito madido di pioggia, che ancora indossava, al nosocomio, dove era ricoverata la sua cara amica d’infanzia. Era da molto tempo che non si vedevano. Essi si frequentavano oramai raramente. Elide era convolata a nozze già da tempo, e Paolo si era sposato qualche anno dopo. Lo stress per il lavoro e le incombenze quotidiane li costringevano a stare lontani l’uno dall’altra. L’amicizia, però, quella vera, non era finita. Di tanto in tanto, si telefonavano vicendevolmente e ogni tanto andavano, tutti quanti, piccoli figli compresi, a deliziarsi nel consumare delle pizze in locali che loro conoscevano bene. Vi lavoravano bravi pizzaioli, esperti e abili: dei veri artisti. I prodotti che usavano erano un piacere e una goduria per il palato. Tutti quanti gli amici facevano discorsi leggeri, e le battute spiritose e comiche non mancavano. Dopotutto, quello che contava era il piacere di stare insieme. Tutti loro esprimevano soddisfacimento per le serate trascorse in allegria e spensieratezza. Il marito di Elide era, invece, un tipo taciturno per natura, molto introverso e abbozzava soltanto a dei sorrisi, magari di circostanza durante i discorsi che si facevano nel locale. Non era propriamente un tipo a cui piaceva molto la compagnia. Paolo non aveva avuto il tempo di conoscerlo bene, ma gli bastò poco per inquadrarlo e per farsi un’opinione di lui, non certo benevola. L’empatia del marito di Elide non era il suo forte. Un carattere troppo schivo, chiuso. Non ci teneva a rendersi simpatico. Era taciturno, ma sembrava che questa sua ritrosia la volesse rinfacciare a chi gli stava intorno. Un tipo supponente. Ma quello che più dava fastidio era il suo modo di porsi. Aveva un atteggiamento sdegnoso di presunzione. Dimostrava la sua boria e la sua presunta superiorità a chi si avvicinava a lui per parlargli e metterlo a suo agio. Ma lui non ci teneva. Un narcisista overt. La sua non era timidezza e neppure senso d’imbarazzo. Era soltanto superbia, e il suo atteggiamento e tono di sussiego quasi imbarazzava chi non lo conosceva bene. Chi gli parlava, anche per farlo partecipe dei discorsi, talvolta seri e di un certo spessore e, talvolta improntati a battute di spirito, ci rimaneva male perché da lui non aveva alcuna partecipazione al discorso e non proferiva alcuna parola. Aveva spesso lo sguardo fisso nel vuoto e si mostrava quasi infastidito quand’era con loro. La sua supponenza irritava. Ma gli amici di Paolo erano tutti brava gente. Mai presuntuosi o volgari e sempre educati e rispettosi. Un tipo, invece lui, sicuramente da allontanare. Tutti quanti si chiedevano poi, meravigliati, come mai l’amica Elide potesse stare accanto ad un tipo del genere, altezzoso e per nulla simpatico. Si erano convinti di avere davanti un vero misantropo, altezzoso e arrogante.

In quella sventurata giornata Paolo, arrivato all’ospedale, chiese agli infermieri che incontrò al primo piano, ove fosse il reparto di rianimazione. E così, s’incamminò, con passo frenetico, verso quel reparto. Lungo il corridoio, al quinto piano, vi era la sala di terapia intensiva ove venivano curati i pazienti critici, separata con dei vetri spessi dal corridoio, ove i parenti dei pazienti potevano vedere i loro sfortunati congiunti. Nella sciagurata sorte si era avuta una piccola fortuna. Il letto sul quale era distesa Elide era proprio vicino al corridoio. I suoi genitori potevano così vederla da vicino nella sua immobilità. Paolo venne a sapere dai loro più cari e più vicini parenti che Elide era ormai in coma irreversibile. I medici avevano poca speranza di tenerla in vita a lungo. Gli occhi di Paolo divennero lucidi e anche quelli dei genitori, dei due fratelli e di una sorella della giovane ricoverata che, piangendo disperatamente nell’animo ma sommessamente all’apparenza, gli riferirono che si aspettavano il peggio. L’uomo guardò a lungo la sua povera amica Elide e pregò per lei. Ma poi, per l’emozione non ce la fece più a rimanere inerme a vedere quella sala asettica e ricca di tristezza, con un’atmosfera surreale, che pareva inverosimile. Era tutto indecifrabile. Tutti quanti non credevano ai propri occhi. Paolo dovette ritornare a casa, turbato per un avvenimento che non si sarebbe mai aspettato, conoscendo l’animo dell’amica molto aperto e gioviale: un carattere allegro e spensierato e una voglia di vivere che mai si spegneva in lei. Che pena gli facevano i parenti intimi della donna che erano lì a sperare in un autentico miracolo… Al volante, di ritorno a casa, Paolo piangeva e a stento vedeva la strada bagnata da un’intensa pioggia e tanta rugiada nell’aria, che rendeva il parabrezza dell’auto poco trasparente e la foschia rendeva difficile la visibilità lungo la strada. La bassa pressione dell’atmosfera impediva all’aria caliginosa di sollevarsi e di essere spazzata via dal suolo. L’incalzante pioggia non cessava, quasi fossero le lacrime di disperazione di Elide che non voleva andare via da questo mondo che lei riteneva ostile ma che amava, nonostante tutto: questo mondo che lei stessa aveva voluto lasciare per la sua difficile e travagliata vita. Paolo pensava continuamente all’estremo gesto della giovane amica. Le giornate continuavano a trascorrere, come trascorrono anche dopo un dramma. La vita continuava. Il lavoro non poteva attendere e così anche la routine del quotidiano. Paolo ritornava al lavoro giornalmente. Giorni tormentati. Lacrime dei più cari versate in un lago di speranza. Paolo e la moglie non potevano mancare al triste e tormentato richiamo giornaliero di andare a trovare l’amica: lì, sempre in quel reparto nosocomiale, freddo come il marmo e irreale come un sussulto che non ti aspetti perché è frutto sofferto di una fantasia che è solo nella mente di chi è in forte apprensione. Vederla immobile nel letto era una ferita al cuore, giorno per giorno. Gli occhi sempre umidi di lacrime. Gioie perdute. La speranza, pur sempre illusoria, ti consegna all’immaginario che tutto procederà nel verso giusto e che i fantasmi della negazione della vita saranno allontanati e fatti scomparire. Immagini, dunque, fantastiche balenavano nella mente di Paolo, sperando in un miracolo, con l’illusione che aiuta a pensare in positivo, nonostante tutto. Trascorse altro tempo e lo stato comatoso della donna pareva non dare segni di speranza. Elide era intubata. I suoi genitori e i suoi fratelli si preparavano al peggio. E con rabbia Filippo, il fratello della povera giovane, gli riferiva che il motivo del terribile gesto della sorella era dovuto ad una vicenda incresciosa. Lei aveva trovato, il giorno prima, nel letto della stanza il marito, nudo, con un uomo, in atteggiamenti molto intimi e inequivocabili. E scappò via da quella casa disperatamente.

Era diventata ormai la casa dei vizi e delle deviazioni sessuali, peraltro non dichiarate. Non era stato neppure onesto il marito di Elide, nel non dichiarare le sue tendenze bisessuali. Sposandola l’aveva ingannata. Era questo che non avrebbe potuto mai accettare l’amica di Paolo: la bisessualità del marito, ma soprattutto l’inganno. Un oltraggio alla sua persona. Oltre ad essere un misantropo, pensava Paolo, era qualcos’altro e l’avere nascosto questa sua tendenza sessuale a quella che sarebbe stata la donna della sua vita era inaccettabile: un comportamento molto grave, ingannevole e odioso.

La speranza in un miracolo andava scemando. In Paolo sopraggiunse la tentazione di non andare a trovare più l’amica all’ospedale, per non incontrare i suoi cari e di non vivere più di angosce, timori e sofferenze per non poter essere d’aiuto a Elide, la cui vita era appesa ormai a un filo. Era nelle mani dei medici. Ma se è vero che la speranza è l’ultima a morire, tutti quanti se ne facevano una ragione di vita, seppur residua. E il tempo continuava nel suo inesorabile cammino, giorno dopo giorno. Il tempo pareva trascorrere lentamente. Un giorno, ritornando a casa, Paolo confidò alla moglie che non se la sentiva più di sopportare giornalmente le sue pene e quelle che si rispecchiavano nei genitori e fratelli della povera sventurata. E per non pensare a quel dramma opprimente, il giorno seguente, decisero di allontanarsi dalla città per recarsi in un luogo amato da Paolo, fitto di boschi lussureggianti: San Martino delle Scale, a pochi chilometri dalla città. Arrivarono sul luogo e posteggiata l’autovettura s’incamminarono verso il bosco per una breve e salutare passeggiata a ritemprare i polmoni di aria salubre, non più malsana come si respira in quella confusionaria della città, ricca di smog velenoso. L’aria agreste era accompagnata dall’odore inconfondibile dell’erba, baciata dai raggi del sole, di quella dei fiori, dei germogli dei semi interrati, dei ramoscelli e delle foglioline, che erano nascenti dalle gemme delle piante spontanee, dei pini e di alberi d’alto fusto, tipici dei luoghi fitti di vegetazione e che davano frescura all’ambiente campestre, e delle frasche che abbellivano i fusti secolari degli alberi, alcuni dei quali maestosi. Quella giornata era l’anticipo della primavera. Paolo e Mariella udivano i rumori della natura, simili a dolci suoni, caratteristici dei luoghi lussureggianti, non deturpati per mano dell’uomo e ove la natura è stata generosa. E lì, i due giovani coniugi assaporarono i primi effetti della rinascita della natura che sussurra all’uomo di tenersi lontano da dispiaceri, apprensioni, dissapori che la vita purtroppo a volte riserva. Il sole era alto e splendente nel terso e azzurro cielo. Quel giorno appariva come un riscatto della natura. Il risveglio dei piccoli mammiferi dopo un lungo letargo: ghiri e scoiattoli facevano scorribande nel bosco. I due novelli sposi parevano svegliarsi anche loro, insieme alla natura che faceva sentire gli effetti del rinvigorimento e del ravvivamento dei suoi colori in quella calda giornata. Il susseguirsi di soavi suoni, misti a odori inconfondibili, che davano la sensazione di essere già in primavera, facevano da cornice a tutto l’ambiente boschivo. In questo luogo è stata sempre in espansione la silvicoltura che circonda tutto l’ameno luogo silvestre. I luoghi campestri erano sempre stati gradevoli a Paolo, anche se si fossero presentati in tutto il loro selvatico aspetto. Ne trovava pace mentale e ristoro nel fisico. Era questo un modo per non ricordare con angoscia lo stato penoso che stavano vivendo, col pensiero quasi fisso all’amica su un letto d’ospedale. Era un modo per dimenticare, almeno per il resto della giornata. Di tutto si era parlato con la moglie, tranne della situazione comatosa di Elide. E così, almeno per quella giornata, erano quasi riusciti a non pensare ad altro se non a parlare di argomenti spensierati, almeno all’apparenza. Arrivati all’abbazia benedettina, che da tempo non vedevano al suo interno, si accorsero che il portone d’ingresso era chiuso. Un attimo di stizza, dopo aver sentito il bisogno di pregare nel silenzio più assoluto. Davanti al portone scorsero una donna dall’aspetto un po’ strano, coperta da un camice bianco, inconsueto abbigliamento. La donna sembrava un essere d’altri tempi, col viso smunto ma che accennava spesso a timidi sorrisi, le occhiaie, il taglio dei capelli d’altri tempi, lo sguardo incantato e distratto, la voce suadente e rassicurante, col tono così basso che si faceva fatica a comprendere ciò che diceva, la veste non dell’epoca contemporanea e strani sandali ai piedi. E nell’aria, attorno a lei, uno strano odore d’incenso. Quando parlava non gesticolava e teneva le braccia basse e incollate ai fianchi. I due coniugi erano colpiti da quella donna, che pareva essere uscita da epoche lontane. Le chiesero, comunque, se e quando il padre benedettino avesse aperto il portone per celebrare la messa. La donna li guardò con insistenza, sorrise e li invitò ad attendere, poiché era sicura che la messa pomeridiana si sarebbe celebrata. Lei conosceva le abitudini dei padri benedettini che, talvolta, si facevano attendere, ma che non mancavano mai al loro dovere di unirsi con i fedeli per le preghiere della giornata. Era anche evidente la volontà della sconosciuta di parlare con la giovane coppia. Si comprendeva che ne sentiva il bisogno. E i due si sentivano invogliati ad ascoltarla e a parlare con lei della bellezza del luogo. La donna mostrava charme e sicurezza nel suo linguaggio forbito e che denotava una certa cultura e preparazione artistica e storica dell’abbazia e del luogo. Nelle descrizioni che ne faceva della chiesa non disdegnava di fare riferimento ad avvenimenti storici e artistici. Alla domanda di dove fosse e dove vivesse, la donna pareva distrarsi e non diede alcuna risposta. Aspettarono ancora a lungo Paolo e Mariella, ma impazienti, stavano per ritornarsene a ripercorrere a ritroso la strada che li aveva condotti sul luogo di preghiera, quando avvertirono i cigolii delle cerniere del portone di legno grosso e intarsiato, che andava aprendosi lentamente per l’accesso all’abbazia. E così, finalmente, insieme a quella donna dall’aspetto curioso entrarono per pregare. La dama bianca si sedette sulla panca davanti a loro due. All’interno, vi era un silenzio irreale: luogo ideale per pregare. Vi erano solo loro, tre fedeli. Poi, entrarono nell’abbazia pochi altri fedeli che avvicinandosi all’altare maggiore si inchinarono ognuno per conto loro e con le mani congiunte pregavano. Eppure la giornata era soleggiante e invitante per ascoltare la messa. Da una porta di legno intarsiato, accanto al presbiterio, uscì il parroco benedettino. Giunto all’altare, il sacerdote con i ministri fece la debita riverenza, baciò l’altare in segno di venerazione, che iniziata l’antifona d’ingresso, salutò ad accogliere i fedeli in preghiera. Ed ebbe inizio la celebrazione della messa. Delle lacrime rigavano il volto di Paolo che, inginocchiato, e assorto nei suoi pensieri e col capo chino, univa le mani in segno di rispetto e di devozione e innalzava preci al Signore, ma a bassa voce. La moglie, immobile, guardava l’altare ove spiccava la figura di Cristo in croce. La dama dalla veste bianca, talvolta, si girava per volgere lo sguardo ai due giovani con fare confortante. Li guardava teneramente fissi negli occhi, accennando a dei sorrisi. E poi, si rigirava per guardare verso l’altare, ove il parroco benedettino recitava la preghiera. Era un tripudio per l’animo e un gaudio spirituale.

Il sacerdote esordì: “La Grazia del Signore, nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi… Fratelli, eletti secondo la prescienza di Dio Padre mediante la santificazione dello Spirito per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue, grazia e pace in abbondanza in tutti voi… Nel giorno in cui celebriamo la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte… Riconosciamoci bisognosi della misericordia del Padre…!”

In quell’attimo, Paolo si sentì battere la spalla. Alzò lo sguardo, dopo essere rimasto assorto in preghiera, e scorse la figura della dama dalla veste bianca. Si accorse che non poteva distogliere lo sguardo da lei, che lo guardava teneramente, e sorridente gli disse: “Continua a pregare per la tua amica! È in grazia di Dio e si salverà. Ancora non è completo il suo cammino in terra. Si sveglierà e conforterà gli animi di tutti voi: quello tuo e di tua moglie, dei suoi genitori e fratelli e di tutti i suoi parenti e amici più cari. Non state, dunque, in pena per lei! I vostri cuori sono sinceri”. Paolo diresse il suo sguardo incredulo verso la moglie e tremava dopo aver sentito proferire le parole di quella dama bianca, bisbigliate sottovoce alle sue orecchie e che lo rassicuravano. Rivolse lo sguardo quasi incredulo e spaventato verso la donna, ma non la rivide più davanti a lui. Era come se si fosse volatilizzata. I due non credevano ai loro occhi. Erano allibiti. Non capivano. I loro sguardi s’incrociavano, come a chiedersi come fosse possibile un accadimento del genere, irreale per come si era manifestato. Un momento fatato, magico nella sua manifestazione. Era svanita come fosse un corpo etereo. Come faceva a conoscere la donna dalla veste bianca il disagio, il tormento di Paolo in quei giorni drammatici per la sua amica di sempre? Come faceva a sapere dell’arrivo dei due giovani coniugi in quell’abbazia, in quel preciso giorno e a quella precisa ora? Come avrebbe fatto a immaginare che la messa fosse stata seguita solo da loro tre e da pochi altri fedeli? Forse, la parola “prescienza”, che è la conoscenza che Dio ha ab aeterno, cioè dall’eternità, di tutto ciò che non ha alcun inizio, accadrà per volere suo e della Santissima Trinità, aveva infuso nell’animo della donna l’essenza della parola e ne aveva donato le doti profetiche. O, semplicemente, essa era un angelo immanifesto, sceso sulla terra per rincuorarli e profetizzare, per divina ispirazione, agli uomini tormentati le cose future: una Sibilla, ispirata e dotata di virtù profetiche in grado di dare responsi e vaticini, ma che mai avrebbe fatto intendere di possedere queste facoltà fuori da ogni logica a coloro che avrebbe incontrato nel suo cammino. Forse la Sibilla esisteva solo nella letteratura dell’antichità classica. Quella donna si prendeva dunque gioco dei due coniugi? Voleva far sottilmente intendere che possedeva tali facoltà profetiche? Insomma: una falsa donna veggente? Paolo e Mariella non volevano credere a questi inganni e speravano che quella donna era in realtà un essere materializzato mandato dal Signore.

In effetti, quella liturgia era un mistero, unico nella fede. Ed era tutto surreale. Si respirava in quella chiesa un’atmosfera irreale, immateriale, astratta, come fosse vissuta solamente in un sogno fantastico. E, ovunque, l’abbazia odorava d’incenso. Ma, invece, era tutto reale. L’odore dell’incenso era reale. Le parole del Sacerdote e la messa erano reali. La chiesa era reale. E il tempo era quello che loro due stavano vivendo. Dentro all’abbazia non erano stati condotti a loro insaputa in un tempo futuro o passato. Era il presente. Ma alcune manifestazioni non erano chiare.

Ancora increduli e trafelati i due, con passi incerti e barcollando per l’accaduto, uscirono dalla chiesa e ripresero la strada del ritorno, non prima di un devoto segno della croce rivolto all’altare maggiore. Paolo già pensava al presunto miracolo lungo la strada che li portava a casa e ne parlava con la moglie. E il giorno dopo, all’uscita dal proprio luogo di lavoro, si diresse precipitosamente all’ospedale dove già da tempo si trovava l’amica. Ritornò dall’ospedale un po’ deluso. Attendeva il miracolo che non si era avverato. E così, giorno dopo giorno. E il tempo trascorreva inesorabilmente. I giorni: uno appresso all’altro, ma niente. Elide era sempre lì sul suo letto, immobile.

Col cuore infranto, Paolo non credeva più ad un possibile prodigio, in seguito a quella esperienza vissuta con la moglie all’abbazia. Giorno dopo giorno, continuava a perdere le speranze in un miracolo. Ritornava dalla sua amica Elide, giornalmente, ma la giovane non dava segni di risveglio. Affranto, Paolo si chiedeva che tutto quello che aveva vissuto in quella chiesa non fosse stato che un inganno o che fosse stato solo una loro suggestione, un fenomeno psicologico, una visione irreale, un sentimento lontano dalla realtà visiva e percepita da lui come verità. O forse solo un sogno.

Paolo viveva sentimenti contrastanti: da un lato il bisogno di vedere costantemente l’amica per la grande amicizia e l’affetto che li legava e dall’altro la delusione nel non vedere progressi confortanti che avrebbero fatto uscire, se pur lentamente, Elide dal maledetto coma. Trascorrevano i giorni. Il tempo pareva rallentare la sua corsa. Le giornate si allungavano. Tra circa due mesi sarebbe giunto il solstizio d’estate, ove nel nostro emisfero boreale il dì è il più lungo dell’anno e la notte è la più breve. Era domenica, la domenica di Pasqua. Paolo, insieme a Mariella e ai figli si sedettero al tavolo, come accadeva ogni domenica mattina e fecero colazione. Si parlava del più e del meno e a un tratto sul davanzale della finestra si poggiò una colomba che batteva le ali, ma non prendeva il volo e tremante se ne stava lì immobile. Uno dei suoi figli si alzò dal tavolo per guardarla più da vicino, ma fu fermato dal padre che non voleva disturbare il volatile. Era la giornata pasquale e l’uomo la vedeva come una portatrice di pace e forse, inconsciamente, di miracolo per l’amata amica. Ma, da lì a un po’ la colomba riprese il volo e scomparve alla loro vista. La giornata si faceva sempre più chiara e il cinguettio degli uccellini seguiva l’arrivo della colomba e si poggiarono anch’essi sul davanzale della finestra della cucina. Cantavano in un modo chiassoso, quasi a far festa. Forse un fausto presagio per l’amica, che solo nella mente di Paolo andava manifestandosi. O forse solo illusione. D’altronde, era la giornata pasquale. Poi, scomparvero nel cielo sereno, come fosse stato uno stormo che va verso altre mete a loro più gradevoli. I riflessi del sole si facevano sempre più prorompenti e luminosi. La natura era proprio al suo risveglio, dopo un inverno cupo, tedioso e triste. Si era in piena primavera. Si era in piena fioritura e rigoglio primaverile.

Paolo e Mariella non potevano non andare a trovare l’amica, proprio in quella giornata che rappresentava la resurrezione del Cristo. E così, si avviarono anche quel giorno in direzione dell’ospedale. E sempre fuori da quel reparto di terapia intensiva vi erano i genitori e i fratelli di Elide e altri loro parenti e conoscenti. Dai loro sguardi traspariva un’aria amara di malinconia, di sconforto. Paolo e Mariella li salutarono. Gli occhi dei parenti della povera donna erano immobili e tradivano pensieri senza speranze. I loro sguardi erano persi nel vuoto. Il reparto appariva sempre gelido a tutti quanti loro, per un destino crudele; un dramma insopportabile anche se era stato voluto deliberatamente dalla giovane Elide. Un destino infame. Paolo, al di là della vetrata, guardava l’amica immobile sul letto della speranza. Pian piano, però, si guardò attorno, si girò e ad un tratto il suo sguardo si posò su quell’angolo del corridoio che girava attorno a quella sala di sofferenze, or passeggere, or durature e senza certezze del domani e di vite consegnate alla morte. Il giovane amico non riusciva a staccare però lo sguardo da quel punto di corridoio e faceva fatica a distogliere il suo piglio da lì. Ad un tratto, vide stampata sul pavimento di marmo un’ombra che procedeva lenta e girò l’angolo verso di lui.  Ed ecco apparire una donna vestita di bianco con lo sguardo fisso in avanti, che procedeva lenta lungo il corridoio. Gli passò molto vicino, ma non si voltò a guardarlo e neppure a sorridergli. Paolo la seguiva con lo sguardo. Un’impercettibile sensazione ebbe quando la fissò a lungo e si accorse che il suo corpo per pochi istanti appariva evanescente. Con una mano Paolo, perplesso e inquietato, si toccò il mento e le labbra, e pensava. Improvvisamente, affiorò un debole ricordo che pian piano si fece sempre più vivo e chiaro. Quella donna l’aveva già vista. “Ma sì” pensò. “Io quella strana donna l’ho già vista, sempre vestita di bianco”. Si avvicinò dunque a sua moglie e le sussurrò all’orecchio: “Mariella, vedi quella donna lungo il corridoio? Mi è passata vicino. Volgi lo sguardo pure tu in quella direzione! Subito, prima che volti l’angolo!” La moglie si girò di colpo e guardò in direzione del corridoio. “L’hai vista? domandò Paolo. “Ti ricorda qualcuno? Non ti sembra che sia quella donna vestita di bianco che incontrammo di fronte all’abbazia di San Martino delle Scale? Non è lei?”. La donna misteriosa a quel punto lentamente girò il suo sguardo verso Paolo e Mariella e con un timido sorriso rivolto ai due coniugi, rigirò lo sguardo avanti a lei e continuò con passo lento, percorrendo il corridoio attorno alla sala di degenza e scomparve. Paolo continuò a guardare Elide, distesa esanime nel letto, con preoccupazione mista ad angoscia. La sfortunata donna, sempre distesa e riversa sul letto, col pericolo delle piaghe nel suo corpo, rischiava problemi seri. Avrebbe potuto, infatti, contrarre anche la polmonite. E a quel punto sarebbe stato inutile sperare ancora in una sua improbabile ripresa.

Si guardavano sconsolati tutti quanti negli occhi e la madre di Elide, con gli occhi lucidi delle poche lacrime ormai rimaste, non le volle più mostrare ai presenti e volse lo sguardo verso la sua amata figlia.

Ma ecco che ad un tratto volò alto nel corridoio un grido. Un grido di stupore misto ad una enorme sensazione di felicità ritrovata. Non era un grido di dolore. Era un grido di speranza. Le dita della mano di Elide avevano cominciato a muoversi debolmente. Tutti quanti a non credere ai propri occhi. Sguardi impietriti, attoniti. Brividi che attraversavano i corpi dei presenti, tremanti per l’incredulità. A quel punto, furono chiamati ad alta voce i medici e tutto il personale del reparto. Tutti a gridare per farli accorrere al suo capezzale, al di là della vetrata. Grida e grida senza fine. Nessuno accorreva; né infermieri, né medici. Forse lo spessore della vetrata che separava la sala di terapia intensiva dal corridoio, dove si appostavano i parenti dei pazienti comatosi e dei pazienti critici, impediva l’effondersi delle grida. Erano probabilmente delle vetrate antiacustiche. Ad un tratto, uno dei fratelli di Elide ebbe l’idea di correre ed uscire dall’ospedale, girando attorno alla sala dall’esterno dell’ospedale e giunto davanti ad una porticina bussò violentemente e insistentemente, gridando agli operatori sanitari di farsi aprire la porta. Finalmente, un inserviente la aprì e lo guardò fisso negli occhi. Il fratello di Elide gli gridò di far accorrere i medici al letto di sua sorella, perché dava segni di ripresa. A quel punto, l’inserviente lo rassicurò e gli rispose che i medici e tutto lo staff degli infermieri avevano sentito le grida provenire dal corridoio ed erano accorsi al capezzale di sua sorella. E adesso erano lì davanti a lei, a prestarle le prime cure. Intanto, pianti di gioia misti a incredulità e tanta incommensurabile speranza uscivano dalla voce dei genitori, dei fratelli e di Paolo e Mariella. E speravano tutti che quello fosse stato l’inizio di una ripresa, anche se pur faticosa e difficile. Quelle dita che si muovevano debolmente erano un segnale di speranza, quasi di resurrezione, proprio nella giornata pasquale. La mente di Paolo non poteva non andare a quella donna dalla veste bianca, che sapeva, che aveva presagito quanto si stava compiendo: forse una Sibilla del tempo coevo, che aveva dato tacitamente a loro responsi e vaticini, con frasi di incerta interpretazione e con significati oscuri; forse ispirata da un autentico miracolo che avrebbe dovuto compiersi. Un angelo sceso in terra, oracolo fatto donna sapiente e portatrice del destino dell’uomo. E pensò che forse era stato quell’essere eterico, camuffato da donna, a mandare quella colomba a poggiarsi sul davanzale della finestra, quella mattina, come messaggera della rinascita della vita. Un presagio del risveglio dell’amata amica. Forse era tutto scritto.

I medici non credevano ai loro occhi e si lanciavano sguardi allibiti tra loro, ma la contentezza e la soddisfazione nell’aver recuperato una vita era tanta. Per loro, Elide era destinata a non reggere a lungo, e la morte sarebbe arrivata quasi sicuramente. E, invece, la povera donna si era salvata. Non era destinata a morire così giovane. E forse si erano pure affezionati alla giovane, che stette in coma per intere settimane e la vedevano sempre lì in quel letto di sogni impossibili, ma infine realizzati. Avevano curato e salvato una giovane donna. Ma la mano di Dio aveva fatto il resto, tramite un angelo vestito da dama con la veste bianca. I medici si dettero dunque immediatamente da fare e cambiarono il protocollo delle cure. 

Fremiti di speranza scorrevano lungo le vene di tutti. Il miracolo forse si era compiuto. Tutti quanti stettero lì dietro alla vetrata a seguire i movimenti dei medici. L’orario delle visite, intanto, era finito e ognuno se ne tornava a casa propria, ma con un filo di speranza adesso. Anzi, una vera e propria speranza per un ritorno in vita. Paolo e Mariella salutarono così i genitori e i fratelli dell’amica e tutti gli altri suoi parenti più stretti, e sulle facce di tutti era evidente la soddisfazione, la vera speranza, la rilassatezza e con esse la serenità e felicità riconquistate. Il tempo pareva trascorrere lentamente. Paolo e Mariella tornavano giornalmente a trovare la propria cara amica e lì trovavano sempre i suoi genitori e i suoi fratelli, con i visi ancor più distesi e le espressioni degli occhi ancor più serene. Trascorsero altri giorni che sembravano non avere fine e altri giorni ancora. Ma un giorno squillò il telefono a casa dei due coniugi. Mariella prese la cornetta per rispondere. E subito un grido venne lanciato e si udì per tutta la casa. Un grido di gioia, di speranza, di felicità ritrovate. Le veniva comunicato dal fratello della degente che la sorella aveva aperto, se pur debolmente, gli occhi e cominciava a bisbigliare e a balbettare alcune parole agli infermieri e al medico di turno. Non si ricordava ove si trovasse. Non ricordava nulla. Fu così che la trasportarono al reparto di neurologia. Ma il peggio era passato e poco alla volta Elide riconosceva i volti dei suoi cari, prima confusamente, poi sempre in modo più chiaro. Paolo e Mariella, avuta la notizia, si precipitarono raggianti di gioia al nosocomio. E così, arrivati a destinazione, al reparto di neurologia, i due giovani coniugi accarezzarono la fronte ancora fredda di Elide, e poggiarono le loro mani sulle sue. Si strinsero poi in un abbraccio commovente con i suoi familiari. Rimasero ancora lì per un bel po’ di tempo, senza parlare alla donna, per il timore di disturbarla. Ma poi Paolo, testardamente, si avvicinò al letto dell’amica ad abbracciarla delicatamente e così anche Mariella. Era un istinto troppo forte per loro abbandonarsi ad abbracciarla. Un debole sorriso con gli occhi lucidi di lacrime era stampato sul volto della ragazza e un grazie per essere stati presenti al suo capezzale, quando ancora non si sapeva se fosse rimasta in vita. Era venuta a conoscenza, infatti, dai suoi cari che costantemente Paolo e sua moglie venivano a trovarla all’ospedale e avevano pena e terrore per la sua sorte. Non poteva andarsene così giovane. Non poteva sfuggire alla vita. Sarebbe stato uno strazio per i suoi cari. Avrebbe avuto tante altre cose da fare in vita. Avrebbe avuto ancora un ruolo importante per sé e per i suoi cari. E sorrise quando disse che agli amici non poteva lasciarli in così malo modo. Era finalmente arrivata la serenità per tutti. Era come ritornare a vivere un’altra vita, senza rabbia, senza rammarichi, senza tumulti, senza cocenti delusioni che l’avrebbero sconvolta, quand’anche non ne sarebbe valsa la pena, visto con quale vera identità si era rivelato il marito. Elide doveva rendersi conto che il suo coniuge non meritava il suo amore. 

E così Paolo e sua moglie, dopo un discorso improvvisato d’augurio per la guarigione di Elide, rivolto ai suoi familiari, e con l’auspicio che sarebbe stata efficace la cura per la riabilitazione, si accomiatarono. Uscirono dall’ospedale, e una luce di un sole splendente e rinnovato di primavera era d’augurio per la salvezza dal gesto inconsulto dell’amica d’infanzia e per quella che era oramai la sua prossima guarigione. Paolo e Mariella ripresero la loro strada e distrattamente vedevano la stagione fiorire e rinascere a nuova vita, come quella della loro amata amica. Tale era la gioia per un’amica ritrovata. E così, tenendosi per mano, si avviarono verso l’autovettura, e ripercossero la strada del ritorno a casa. E commossi si guardarono negli occhi, lucidi di lacrime di gioia, sorridendo alla vita sfavillante di energia: Elide ce l’aveva fatta. 

 

 

 diritti riservati




 

Roberto Zaoner

(24/02/2018, testo rielaborato e riadattato

nei giorni del 15 e del 16 aprile 2020 e

nei giorni del 28 e del 29 novembre 2021)

 

 

 

 

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  • Categoria: Poesia
  • Eseguita il: 24 febbraio 2018

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