Embrace Me.Roberta Susy Rambotti
mostra personale
ROBERTA SUSY RAMBOTTI. EMBRACE ME
Nel panorama della scultura italiana contemporanea, la ricerca di Roberta Susy Rambotti costituisce un luogo di riflessione complesso, nel quale muoversi con una salda attenzione ed una certa predisposizione alla messa in crisi di determinati presupposti: da qui il titolo dato alla mostra personale, Embrace me, Abbracciami.
Un titolo forte, perentorio, che non lascia alternative.
Una richiesta che si fa forza della propria necessità – la scultura per vivere ha bisogno dell’uomo che la vive – una provocazione carica di consapevolezza e dignità, un grido che giunge sottovoce, sommesso ma fermo desiderio dell’artista di esporsi al pubblico e alla critica.
Un titolo che bene esprime il senso della mostra, dedicata alla produzione recente dell’artista, realizzata in due anni di lavoro ma risultato di un esteso processo di conoscenza, compiuto da Rambotti all’interno di sè e del suo essere scultrice, per giungere poi, in un arco di tempo brevissimo, alla consapevole definizione delle opere oggi esposte in Fondazione.
Abbracciare la scultura è una metafora ricorrente laddove si voglia invitare lo spettatore a conoscerla nella sua inafferrabile totalità.
L’abbraccio dello sguardo deve sapere ruotarle attorno, insinuarsi nelle pieghe cave e nelle superfici concave, affiorare sulle ondulate prominenze, immergersi nell’oscurità della materia lavorata: un abbraccio visivo-corporeo, vorticoso, infinito.
Un abbraccio poetico: la poesia, ci insegnano i greci, contiene l’idea del saper fare, del “saper fare dal nulla”. Dal grado zero, che è vortice di immagini.
Al di là della relazione visuale ed esperienziale che il titolo contiene, suggerendo al pubblico il processo di scoperta della forma, Embrace me suggerisce anche una indicazione di metodo operativo, rimandando al processo costitutivo della scultura: questo è infatti serenamente palesato dall’artista che sceglie di lavorare con l’antica tecnica a colombino, plasmando anello dopo anello la materia-pelle che si contorce e distende per farsi membra.
Come lo spettatore gira attorno alla scultura per com-prenderla e farla propria, così Rambotti lavora con la materia, modellandola, sovrapponendola, levigandola, in un delicato procedimento plastico che deve rispettare i rigorosi equilibri dei pieni e dei vuoti, le leggi ineludibili della composizione.
Diversamente, il processo ideativo, di determinazione della forma, è volutamente indefinito, imprevedibile e potenzialmente mutevole.
La scultura è per Rambotti un processo conoscitivo.
Non esistono schizzi preparatori, non vi sono bozzetti.
L’artista pensa mentre fa.
La forma viene come continuo palesarsi di un procedimento di conoscenza.
Una intuizione in farsi.
Solo alla fine, a cottura ultimata, l’artista si concede il tempo per scoprire il suo pensiero fattosi scultura. E solo allora possono essere pensati anche i titoli che spesso contengono rimandi biomorfi, legati alla dimensione spirituale e inconscia: passandone in rassegna alcuni, Shirifit. L’albero del tempo che scorre con il manto del sogno, Flusso fra i mondi, Potere animale blu, Canto d’acqua dolce, evidente è la relazione con una natura vissuta senza mediazione alcuna dall’artista, in un dialogo che non cede al sublime abbandono, ma che è sempre serrato confronto contaminante tra natura e umanità.
Altri, quali Vibrante ascesa, contengono più esplicitamente il senso di elevazione interiore che l’uomo-artista può raggiungere attraverso il procedimento plastico; vi è poi Ysus Atrebor, perentorio nome dell’artista che si guarda allo specchio della scultura, e si riconosce doppia e molteplice, abbracciandosi nell’altro da sè.
Se a primo vedere la ricerca di Rambotti contiene indirette reminiscenze al panorama del surrealismo con in testa i biomorfismi di Arp, e prima ancora a certo simbolismo già in odore di XX secolo, essa è tuttavia saldamente ancorata nel tormentato farsi della scultura del II° dopoguerra, quando le rovine di un mondo sgomento consegnavano all’artista la speranza di poter costruire una storia nuova nella quale riconoscersi anche perdendosi, superate le rigorose barriere del funzionalismo.
E, nell’incandescente confronto di artisti e architetti capaci di rimettere al mondo il mondo, per dirla con Alighiero Boetti che fece il proprio autoritratto lavorando pugno dopo pugno l’argilla, bisognerebbe forse guardare ad Henry Moore scultore e a Frederick Kiesler architetto, per trovare due linguaggi vicini alla sensibilità plastica di Rambotti.
Mentre l’architetto costruiva teatri e case “endless” dove calmare l’anima nel ripudio della ragionevole statica, lo scultore provava a recuperare quella originaria unità dell’uomo col mondo data dall’assoluta integrità dell’essere: lo faceva scegliendo il vuoto e il pieno, ambivalenti facce di una umanità da ricomporre, venuta prima della storia.
Una umanità che è coscienza senza colpa, consapevolezza senza rinuncia, scelta senza imposizione.
Le sculture di Rambotti hanno appena avviato un processo di conoscenza che in tale direzione si muove. Sarà un piacere seguirlo.
Ilaria Bignotti
domenica 24 agosto 2014
Fondazione Leonesio via Palazzi 15 - Puegnago del Garda - Brescia - Italy
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