Investire nell’arte: gli “art investment funds”
di Pierluigi Farina, Studio Legale Farina - Sommario: I. In generale – II. Gli investimenti in arte – III. Gli art funds – IV. Come funziona un art fund – V. Conclusioni.
I – In generale
Ormai da diversi anni il mercato dell’arte è considerato un buon investimento per chiunque abbia le possibilità economiche e certamente si tratta di un mercato che ha dei punti di contatto con quello finanziario, ma che al tempo stesso è in grado di estraniarsi da esso, creando un valore aggiunto per tutti coloro che decidono di trattarlo. È sicuramente un ambito complesso che non detiene ancora delle regole precise, ed è influenzato in larga parte dai gusti dei singoli operatori. Ma nonostante tutte le incertezze che sono legate a questo contesto, il mercato dei beni artistici sembra aver trovato la formula vincente per sopravvivere e non essere più il fanalino di coda del giro d’affari economici del mondoi.
Negli ultimi anni si è molto parlato di fondi di investimento in arte e, anche se in misura minore, se ne continua a parlare ancora oggi. Un fondo d’arte è la migliore opportunità per diventare un collezionista, senza perdere tempo e cercare art advisor, art dealer, avvocati, ecc. Un team di professionisti in Art & Finance investe in opere d’arte di qualità a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato e minimizza il costo delle transazioni.
Per chi non ne fosse a conoscenza, con fondo d’arte (o art fund) si indica un fondo di investimento speculativo (hedge) gestito da un management (solitamente una società di gestione del risparmio) che raccoglie capitali privati con lo scopo di acquisire, valorizzare e in seguito vendere le opere acquisite.
II – Gli investimenti in arte
Nell’attuale clima di mercato, con la finanza “in altalena”, le opere d’arte rappresentano una asset class alternativa, tanto più che nel lungo periodo l’arte si è spesso dimostrata un “buon rifugio” garantendo rendimenti annui tali da assicurare almeno la protezione dall’inflazione. Basti ricordare che negli ultimi cinquant’anni l’investimento in arte ha dato rendimenti medi annui del 10,5%ii e che gruppi come Microsoft, Deutsche-Bank o J.P. Morgan sono tra i più grandi investitori in opere d’arte contemporanea al mondo, o che Banca Intesa detiene una delle più grandi collezioni d’arte private.
La volatilità dei prezzi combinata con la natura illiquida degli assets, la mancanza di istituzioni per la valutazione e per il regolamento del mercato delle opere, nonché gli alti costi associati con la gestione dei beni (si pensi ai costi di restauro, di custodia e di assicurazione delle opere d’arte) rendono tuttavia tali investimenti alquanto rischiosi.
L’arte consente tuttavia di ottenere nel tempo rendimenti di buon rilievo.
Inoltre, l’investimento diretto in arte permette al possessore di fruire esteticamente dell’opera e di ottenere ulteriori risultati economici derivanti da operazioni di valorizzazione del patrimonio artistico (mostre, prestiti, ecc.). Investire in arte, ancora, comporta notevoli vantaggi fiscali. Per i privati, le plusvalenze nella compravendita di opere d’arte non sono soggette a tassazione. La legislazione italiana, in questo senso, è una delle più favorevoli e incentivanti per l’investimento in opere d’arte: qualunque sia il guadagno ottenuto dalla compravendita di un’opera d’arte, lo Stato italiano non applica alcuna speciale e più gravosa tassazione. Nello specifico, anche per i fondi comuni che investono in opere d’arte non è più dovuta l’imposta sostitutiva ai fini Irpef del 12,50% in ragione d’anno, ma solo al momento del realizzo. Così pure il possesso delle opere, anche se di valore molto elevato, non comporta, a differenza di quello dei beni immobiliari, il pagamento di nessuna tassa, né alcuna denuncia nella dichiarazione dei redditi; anzi, per professionisti e società è possibile, in determinate e limitate ipotesi (ad esempio, nel caso in cui l’acquisto sia connesso alla propria attività professionale e imprenditoriale), anche dedurre fiscalmente il costo sostenuto per l’acquisto dell’opera. L’arte, inoltre, rappresenta un’interessante opportunità di diversificazione degli investimenti finanziari.
III – Gli art funds
Gli “art investment funds” – o più semplicemente “art funds” – nascono quale modalità, per gli investitori di fascia medio alta, di impiegare le proprie risorse in una singolare tipologia di fondo che consente di accedere ad opere d’arte di alcuni tra i migliori artisti al mondo, realtà solitamente possibile solo per pochissimi individui o per grandi musei.
Gli organismi di investimento collettivo del risparmio dedicati al mondo dell’arte sono in prevalenza fondi chiusi, private (fondi istituzionali che investono in società, in genere non quotate, ritenendo grazie a una migliore gestione di ridurre inefficienze, migliorare la loro competitività e di conseguenza il loro valore) o hedge (fondi che utilizzano una strategia o una serie di strategie diverse dal semplice acquisto di obbligazioni, azioni e titoli di credito e il cui scopo è il raggiungimento di un rendimento assoluto e non in relazione ad un benchmark), generalmente domiciliati in paradisi fiscali nei quali i requisiti regolamentari sono estremamente ridotti.
In ogni caso, si tratta di fondi gestiti da società di gestione del risparmio che investono nell’acquisto di opere d’arte (direttamente dall’artista o dai privati o presso gallerie o case d’asta) e rivendono (ricorrendo principalmente allo strumento delle vendite in asta) le stesse opere d’arte, dopo alcuni anni, generando plusvalenze.
Oggi le tipologie di fondi in circolazione sono sostanzialmente due: long term (8-10 anni) con periodi di tempo in cui l’investitore non può richiedere il rimborso delle quote detenute (lock up) generalmente di 3/5 anni e diversificazione su tutto il periodo della storia dell’arte, e quelli più speculativi, a breve termine (in genere 5 anni) che puntano sul mercato dell’arte contemporanea, che spesso offre maggiori possibilità di trading. Per Marilena Pirrelli di ArtEconomy24 “Andy Warhol, ad esempio, è ritenuto moneta sonante scambiabile con gran facilità, così come Roy Lichtenstein e Keith Haring (…)”iii.
Non è richiesta una specifica competenza in arte per investire in art funds. All’investitore è richiesto, infatti, come per la sottoscrizione di ogni fondo di investimento, solo l’acquisto delle quote. Spetta ai gestori del fondo, invece, costituire la collezione delle opere anche attraverso l’affidamento della selezione degli artisti e delle opere a competenze curatoriali esterne o a consulenti specializzati in arte.
Tale tipologia di investimento è caratterizzata (i) da quote di ingresso prestabilite che generalmente partono da Euro 250.000,00, anche se si stanno sempre più affacciando fondi che propongono quote di ingresso più ridotte, e (ii) dalla possibilità di rientrare per i risparmiatori dell’investimento solo a scadenze prestabilite.
Uno degli esperimenti più noti è il Fine Art Fund, fondo londinese ideato da Lord Hanson, uomo d’affari molto attivo negli anni ’80 e grande appassionato d’arte, che annovera nel proprio management professionalità delle più esperte quali Lord Gowrie, Ministro britannico della Cultura del Governo Thatcher e Presidente di Sotheby’s per 10 anni, e Philip Hoffman, già direttore finanziario di Christie’s.
Di tutt’altra natura è l’Art Trading Fund, fondo lanciato da Chris Carlson, che si propone di essere un fondo ad alto rischio che investe esclusivamente in arte moderna e contemporanea, con un alto turn over delle opere possedute, e che cerca di sfruttare il sistema dell’arte per garantire margini di guadagno elevati.
IV – Come funziona un art fund.
Il funzionamento degli art funds è simile a quello dei fondi comuni di investimento, ma la loro peculiarità è rappresentata dal settore nel quale sono impegnate le risorse finanziarie raccolte.
La gestione di un art fund non si limita infatti alla raccolta del capitale e all’investimento, ma prevede una serie di attività secondarie che la rendono maggiormente onerosa. Questo fa si che esistano pochi esempi di società di gestione dedicate esclusivamente all’arte.
Le possibili strategie di investimento sono varie: a) collezioni d’arte diversificate (molti artisti, molte opere, molte epoche – approccio passivo); b) “venture capital arte” (investimento su giovani artisti emergenti); c) “trading arte” (acquisto a prezzi bassi e vendita al rialzo – tante transazioni in tempi ridotti); e d) “scuderia di artisti” (pochi artisti selezionati – approccio attivo teso alla valorizzazione dell’artista).
Data la natura illiquida degli assets oggetto dell’investimento, il ruolo del gestore di un art fund richiede una serie di competenze specifiche necessarie al completamento, ad esempio, delle seguenti attività:
la raccolta iniziale di fondi e la creazione di collegamenti con gli investitori;
l’identificazione di potenziali acquisizioni;
l’acquisto delle opere attraverso aste, vendite private o gallerie;
la supervisione sulle opere acquisite, ad esempio, assicurandosi l’autenticità e che le modalità di trasporto, immagazzinamento, assicurazione e messa in sicurezza siano appropriate;
la negoziazione con le autorità competenti nel caso in cui le opere vengano concesse in prestito a musei o altre istituzioni culturali;
il rispetto delle regole di compliance. Le Sgr devono essere costituite in forma di S.p.A. e sono assoggettate a una disciplina speciale che sostanzialmente coincide con quella prevista per le società di intermediazione mobiliare. Esse devono pertanto essere preventivamente autorizzate allo svolgimento dell’attività dalla Banca d’Italia, sentita la Consob (cfr. art. 34 TUF) e sono sottoposte alla relativa vigilanza. Per ogni fondo istituito la società promotrice deve contestualmente predisporre un apposito regolamento soggetto all’approvazione della Banca d’Italia, al pari delle modificazioni dello stesso (art. 39 TUF). Il regolamento determina le caratteristiche del fondo (ad esempio aperto o chiuso) e ne disciplina il funzionamento. La società di gestione è per legge investita del potere di decidere tutti gli atti di amministrazione e di disposizione del patrimonio del fondo, senza alcuna possibilità di ingerenza da parte degli investitori. La Sgr deve inoltre: a) operare con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei partecipanti al fondo; b) organizzarsi in modo da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti; c) adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti ai fondi, e in particolare disporre di risorse e procedure adeguate per assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi. La Sgr è infine tenuta a osservare, nelle operazioni di investimento, una serie articolata di divieti e di limiti fissati dalla Banca d’Italia al fine di assicurare il contenimento e il frazionamento del rischio. Da ultimo, la contabilità della Sgr e quella del fondo comune sono soggette a revisione contabile obbligatoria;
l’individuazione del momento più opportuno in cui rivendere le opere;
la cessione delle opere e la distribuzione dei proventi agli investitori (e ad altre entità come le case d’asta) e adempiere agli obblighi di natura fiscale.
Quanto ai costi di funzionamento, premesso che ogni fondo tratta tali aspetti come ritiene più opportuno, questi sono regolati in maniera analoga ai costi degli hedge fund o dei fondi di private equity e pertanto si prevede solitamente una management fee pari al 2-3% delle risorse (intese quali opere d’arte) gestite e una performance fee del 20% sui profitti generati. Alcuni fondi richiedono inoltre una entry fee pari al 2-3% dell’investimento.
In considerazione degli alti costi connessi alle transazioni e della volontà di mantenere inalterato lo stato della collezione, che rendono inefficiente negoziare le opere nel breve periodo, gli art funds seguono abitualmente una strategia “buy and hold” di lungo periodo.
Molti fondi tentano, per le suddette ragioni, di ridurre gli ingenti costi associati al possesso delle opere (custodia, manutenzione, restauro, ecc.) , attraverso attività di valorizzazione che consentano di ricavare “flussi di reddito e di incrementare la notorietà degli artisti e delle opere (e quindi il loro valore)”iv.
V – Conclusioni
Molti operatori finanziari, italiani ed esteri, hanno da tempo avviato un’ampia riflessione sui fondi di investimento in arte, che sono senz’altro uno strumento, innovativo, per coniugare le istanze del mercato con quelle culturali. Il problema è sempre lo stesso: creare valore e capire come l’arte produce rendimento. Il momento è quanto mai propizio per farlo, non solo perché viviamo in una fase di rendimenti negativi. Vediamo perché.
Per creare valore, in uno scenario in cui i collezionisti, quelli veri e consolidati, sono già sovraesposti dal punto di vista delle allocazioni finanziarie, non chiedono i servizi dei fondi e hanno un rapporto con le loro opere che privilegia la dimensione affettiva, emozionale, che accoglie malvolentieri l’intermediazione di manager tradizionali (pur facendo attenzione alla gestione finanziaria delle attività di acquisto e di vendita), gli art fund dovrebbero avere un altro ruolo: quello di aprire il mercato verso persone e istituzioni che non sono ancora immerse nell’arte. Un lavoro quindi simmetrico a quello svolto dai galleristi che si dedicano alle sperimentazioni e al lancio di nuovi artisti: i fondi dovrebbero cioè lavorare su artisti consolidati, con intento finanziario, per attrarre nuovi potenziali investitori che altrimenti non si affaccerebbero mai sul mercato dell’arte.
La domanda di fondi di arte esiste già, soprattutto presso la clientela più abbiente; e gli indici di settore ci dicono come il rendimento dell’arte sia paragonabile a quello dell’equity: anzi, che sia meno volatile di quest’ultimo.
Occorre a questo punto trovare un punto di equilibrio e di efficienza tra rendimento, rischio e orizzonte temporale, che si attagli a questo particolare asset, tenendo in considerazione i costi di intermediazione (che sono più alti della media) e la necessità di figure altamente specializzate (oltre che indipendenti).
Un orizzonte che – secondo alcuni esperti – si può muovere in direzioni diverse: quella della collezione molto diversificata, del venture capital dell’arte, del private equity dell’arte per la gestione di scuderie di artisti o per la valorizzazione di patrimoni culturali/asset abbandonati, superando così la logica dell’arte come manufatto, analizzando meglio in che modo la medesima può produrre rendimento. E applicando, dove servono, anche i modelli già noti del real estate, soprattutto quando occorre ragionare in termini di location, qualità del bene, promozione dell’assetv.
Secondo Deloittevi, il mercato dei fondi di investimento di arte rimane ancora una nicchia del settore arte e finanza: nonostante siano emersi alcuni modelli di successo, sembrerebbe essere ancora troppo presto per parlare, per questo comparto, di un mercato a pieno titolo.
Il mercato globale dei fondi di investimento in arte è stato stimato (prudenzialmente) in $ 1,26 nel primo semestre del 2014, con una tendenza quindi al ribasso rispetto ai $ 2.13bn del 2012, soprattutto però a causa di una correzione significativa dei fondi di investimento e dei fondi di arte in Cina. Nel 2014, si stima che 72 fondi d’arte fossero in attività nel mondo, e che ben 55 di questi fossero in Cina. Un Paese, quest’ultimo, in cui la fiducia nei fondi di arte, ma anche più in generale nell’investimento in arte, sembrerebbe contrarsi rapidamente, secondo Deloitte, con una stima di $ 169.000.000 di investimenti nel 2013, rispetto ai $ 529.000.000 del 2012: complici, ovviamente, i regolamenti governativi più severi per il mercato ombra-bancario cinese, che ha innescato, come effetto collaterale, proprio un calo dei fondi di investimento in arte.
Le conclusioni di Deloitte sembrerebbero non collimare perfettamente con la mappatura dei fondi di investimento in arte — fatta in collaborazione con l’Università Luiss di Roma –, che sembrerebbe piuttosto fotografare un mercato dei fondi di arte attivo a prescindere dalla Repubblica Popolare Cinese, forse quindi un po’ sopravvalutata dagli analisti.
Anche in tale contesto, ovviamente, i fondi con almeno tre o cinque anni di track record attraggono più facilmente investitori, soprattutto nella congiuntura attuale, mentre quelli che non hanno, o quasi, precedenti di successo, faticano di più ad attrarre l’attenzione: esemplare in tal senso è il caso di The Fine Art Fund Group — l’unico gestore di art fund che può vantare un track record convincente –, il quale raccoglie $ 250 milioni dei $ 417 totali, rappresentando circa l’80,3% dei c.d. AUM americani ed europei.
Tirando le somme, si può assumere come nel mondo siano già operativi all’incirca 35 fondi (sicuramente) censiti: di cui ben 8, non a caso, sono basati in Lussemburgo; 3 alle isole Cayman; 2 negli Stati Uniti; 2 a Tel-Aviv; 2 a New Dehli; ne risultano poi uno in Polonia, uno in Russia, uno in Svizzera (con un altro, dello stesso gestore, che sta per partire), uno a Gibilterra, uno in Germania, uno a Guernsey (stato dipendente dalla Corona Britannica), un altro in Scozia, uno a Singapore, poi ancora uno in Brasile, uno a Malta, uno in Lichtenstein, uno a San Marino e uno negli Emirati Arabi. Infine, c’è il caso dell’Italia, col fondo Pinacotheca, che non è di fatto mai partito; e di Gestiarte (che chiuse prima del tempo, con un rendimento di nemmeno il 5%). Nell’ottobre 2015, si è poi aggiunto l’Athena Art Finance, lanciato a New York con una dotazione di 280 milioni di dollari, la durata di 7 anni e la missione di elargire prestiti utilizzando a garanzie esclusivamente opere d’arte.
Va da sé che tutti gli altri fondi di arte – se vogliamo dar fede al dato per cui nel mondo ve ne siano circa 70 –, quelli che non si è riusciti, non a caso, a censire, siano cinesi: ma il loro numero è sicuramente inferiore a quello prospettato dalla ricerca di Deloitte. Dati alla mano, infatti, se circa 35 fondi censiti sono europei, americani e di altri Paesi diversi dalla Cina, allora quest’ultima non conta a sua volta più di altri 35 fondi.
Insomma, non vi sono più alibi, neanche per il mercato italiano, in cui siamo certi non mancheranno delle novità: gli art fund sembrano davvero ai nastri di partenza.
Chi vivrà, vedrà.
iNicoletta Crippa, “ARTE: DA BENE RIFUGIO A INVESTIMENTO”, 2015.
iiArt Capital Partners – ACP, L’arte come vera e propria asset class di investimento, Private Banking and Asset Management Forum 2007, 14 settembre 2007, Milano.
iiiM. Pirrelli, La corsa ai fondi di investimento in arte, in ArtEconomy, Plus24, Il Sole24Ore, del 1 dicembre 2007.
ivFilippo Federici, “L’arte come investimento: gli “art investment funds”, 2012.
v Silvia Segnalini, Art fund. Lo stato dell’arte, 2016.
vi Deloitte Art and Finance report 2015
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