NINO SANTOMARCO
Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso – e da lì in poi in una dissolvenza crescente e continua – sopravviveva una Sicilia che potremmo definire del buon tempo antico, la cui civiltà contadina - prevalente e predominante - non si esprimeva e non comunicava mediante gli strumenti e i codici della scrittura, ma attraverso i segni e il lessico dei manufatti, mediante il glossario degli utensili da lavoro, ma anche attraverso la gestualità simbolica delle opere e dei giorni in virtù dei quali il popolo della campagna entrava in comunicazione con la terra, con la natura vivente, con gli animali, con le stagioni, prima che con gli altri uomini.
Gli oggetti, soprattutto, erano i depositari del pensiero, nel senso che essi diventavano i fiduciari, i consegnatari, i custodi del pensiero, allo stesso modo in cui altre categorie di viventi lo depositano nelle pergamene, nei libri, nelle icone. Oggi quei prodotti artigianali costituiscono i fossili, i reperti archeologici della civiltà contadina. E sicuramente non mancano di fascino. Perché sono diventati oggetti della memoria, fantasmi di un mondo che non esiste più, parole di una poesia su cui è caduto un silenzio di polvere, come sui crepuscolari poemetti di Guido Gozzano.
Ebbene, Nino Santomarco, artista ormai approdato alla maturità e alla notorietà, ha alle spalle una lunga carriera di pittore di “quella” Sicilia: una Sicilia mai scontata, mai scomparsa (almeno dai ricordi), mai defunta; Una Sicilia da scoprire e riscoprire nei suoi mille risvolti, per quanto mutevoli; estrema sempre nelle passioni e nei contrasti: da una parte immersa nelle sue solitudini pastorali, chiusa nei suoi borghi severi e solitari, nelle sue antiche chiese inchiodate sui picchi e sui crinali di monti e di colli; dall’altra parte adagiata, distesa nelle sue vallate trionfanti di colori, o affondata nei suoi torrenti chiassosi e tortuosi, in fuga precipitosa, d’inverno; una Sicilia dai grovigli accigliati di cime e di boschi, fitti e neri, a volte, e impenetrabili.
Questa Sicilia, che per fortuna ignora i guasti della cosiddetta civiltà del benessere, oltre che gli insulti dell’uomo tecnologico; che preserva ancora i miti e gli echi e i richiami di una lunga sequenza di presenze straniere, con le loro identità culturali; questa Sicilia, appunto, la ritrovi nei dipinti di Nino Santomarco: nelle sue diversificate dimensioni di cui è ricchissima, nei suoi variegati aspetti, reali o trasfigurati, nei suoi paesaggi assolati o innevati, tempestosi o immobili sotto la tirannia di una luce che non è mai uguale. Ma la rivedi anche nelle sue marine popolate di vele e di imbarcazioni, nelle sue campagne animate da gente al lavoro, da donne imbacuccate nelle lunghe gonne e nei fazzoletti annodati sotto il mento: tutti insieme, femmine e maschi, affaccendati intorno all’aia, sotto un sole che indora ogni cosa, persino il sudore della fronte e delle mani.
La vocazione artistica e la conseguente attività pittorica di Nino Santomarco partono da qui, da queste visioni e apparizioni; così come anche da scenari e parole visti ed ascoltate; dalle marine santagatesi osservate nelle più diverse ore del giorno, scoperte nei loro variabili effetti cromatici, rivissute attraverso una sensibilità niente affatto epidermica, reinventate alla luce riflessa del mattino, del crepuscolo, del tramonto; o attraverso l’argenteo velame del plenilunio o sotto gli sfilacciamenti delle nuvole in cammino, oppure immerse nei bagliori stemperati, ma sempre ardenti, del sole avviato all’orizzonte.
Se la pittura è – anche – confessione, liberazione, dono, sono soprattutto i colori le cifre che trasmettono non solo l’aspetto, la visibilità, le forme, ovvero l’immagine delle cose, ma anche e soprattutto l’anima, il segreto, il mistero di queste forme e di queste immagini. Il fascino della pittura dipende però dal modo in cui i colori si succedono, si accostano, si fondono, si applicano, si declinano. Eppure, la pittura non è fatta solo di colori. I tubetti dei colori sono semplicemente quello che gli scalpelli e i martelli sono per lo scultore. Ciò che essi realizzano è l’idea che l’artista ha in mente. E l’idea che Santomarco esprime è quella di una Sicilia che trasforma il lavoro agreste in mito, che fa diventare i contadini e le contadine, i pastori e le pastorelle, divinità campestri, ninfe, fauni, apparizioni. Il mito, per intenderci, non è regressione in un universo infantile. Non è fiaba. Il mito è la rivelazione del pensiero prelogico, una narrazione “sacra”, riguardante le origini, l’antefatto della civiltà tecnologica e tecnocratica: una narrazione che qualifichiamo “sacra” nel senso che essa involge la religiosità e la vita etica e rituale - di cui fa parte quella campestre - del popolo, nella sua contestualità psichica e naturistica. La sacralità paradigmatica del loro vivere e convivere con il mondo della natura va oltre il realismo nudo, crudo e duro del lavoro come travaglio, come fatica e sofferenza.
Nino Santomarco non è un pittore realista o verista o semplicemente naturalista. I suoi quadri hanno una duplice locuzione denotativa: la visione e la visionarietà: la prima ritrae, ricostruisce, recupera, riporta in vita scene, vedute, prospettive, ambienti, personaggi, situazioni, angoli della Sicilia agreste, campestre, pastorale, contadina, paesana; e non sotto la luce solare o lunare o diurna della quotidianità, ma dentro i fulgori, i bagliori, i riverberi, i contrasti cromatici, o l‘incandescenza, la luminosità, lo scintillio; o la opacità, la mitezza, il chiarore che esige l’arte del dipingere, che è l’arte di sovrapporre visione a visione, verità a nuova verità, l’immaginario a ciò che è materiale, il fantastico a quello che è reale.
Sono nati così sia le tele di Nino Santomarco sia quei dipinti in cui vedi l’ulivo solitario in mezzo a un prato traboccante di stoppie riarse o in un campo di papaveri che esplodono di rosso; oppure lo scopri, quest’albero, proteso verso un cielo che affoga in una gamma trascolorante di blu, o corteggiato da migliaia di girasoli che esibiscono, in gara, le corolle gialle come l’oro. Oppure, ancora, vedi macchie di fiori multicolori che si contendono lo spazio, si fronteggiano e si sfidano sullo sfondo di muraglie collinari, vestite di verde a perdita d’occhio.
IL passaggio dalla pittura come avventura
all’avventura della pittura
Viene un momento, tuttavia, in cui il figurativismo originario, e quasi iniziatico, comincia gradatamente a disciogliersi dietro la spinta di suggestioni, stimoli, tentativi, processi evolutivi, che manifestano una doppia provenienza: dall’interno, in quanto cammino creativo, volo fantastico, progressivo allontanamento dai consueti moduli del realismo suo, tipico; e dal naturalismo travestito a suo modo; dall’esterno per l’attrazione che esercita sull’artista il mondo dell’arte moderna e contemporanea, sempre spinta verso l’innovazione e la sperimentazione, verso la ricerca e l’imprevisto. Cosicché quelli che prima erano segnali occasionali, o rarefatte intuizioni, - valgano come mere esemplificazioni, Fuga dall’Etna, del 1998, Il mare della memoria, del 1999, ed Eruzione, dell’anno 2000 - diventano tappe di un nuovo itinerario di sviluppo. I paesaggi delineati, fino a un certo momento, con precisione di contorni, con estrema invadenza coloristica, - secondo un accattivante gioco di coordinate, di rapporti, di collocazioni delle componenti paesaggistiche - si disfanno, pur senza perdere le connotazioni proprie. Diventano paesaggi nuovi, visti con altri occhi, invasi da altre atmosfere, trasferiti su altri universi rappresentativi. Ora diventano impressionistici, ora sconfinano nell’irreale, ora esplodono in forza dei colori esuberanti, eccessivi, lampeggianti. Tecniche inusitate si affacciano sulle tele e dalle tele, emergendo dal fondo di una memoria rimasta fino a quell’istante come addormentata o assopita o inesplorata. Sono rivelazioni che vengono alla luce dopo un lungo processo evolutivo. I fiori diventano macchie di fiori, immersi e fusi con il verde straripante e affollato dei prati, dove la competizione per mostrarsi, per apparire, si rende leggibile in quell’urtarsi e spingersi a vicenda di essi stessi, per affacciarsi ai davanzali della vita e della luce. Sono paesaggi – valli, radure, campagne, monti – dove regnano i colori, più che gli elementi arborei. Non mancano tramonti marini di cui punto focale è il sole con le sue raggiere di fiamma e la festa delle sue tinte mai uguali, che lo corteggiano e lo accompagnano. Oppure ampie di stese di terre con alberi isolati o riuniti in silenziosi conciliaboli. O marine con gabbiani che volano nessuno sa dove, oppure agitate, sconvolte, infuriate, impazzite, dentro un gioco di nuvole incombenti, in conflitto fra di loro.
Chi si sofferma ad osservare questi dipinti non può sfuggire all’intento dell’artista di celebrare soprattutto i luoghi della sua quotidiana esistenza ed esperienza, e i momenti di vita di questa Sicilia riveduta e recuperata nei suoi aspetti più significativi e singolari: dal pescatori e pescivendoli scavati nei visi e nelle membra da un sole che li scolpisce, ai tramonti lunari imprigionati nell’oro scintillante, sottratto al sole, fino alle nature morte, costituite da oggetti arcaici e desueti, che ci riconducono per mano al mondo di una volta.
Eppure in questa genere di pittura non c’è impenetrabilità, cripticità o sibillinità di contenuti e forme. Ci sono, caso mai, nella scomposizione delle forme, le scintille dell’infinito mistero che è la Sicilia, i suoi mille volti, i suoi mille frammenti di storia. Ci sono visioni, più che vedute; ci sono bagliori, più che coloro. Rivelazioni. Ci sono i silenzi sussurrati al vento e il ritmo della risacca o dello sciacquio marino, o il mare nella sua vastità, coi suoi capogiri di collera, oppure i cieli foschi, imbronciati, minacciosi, dove la luna si stempera come un limone disfatto, o il sole ribolle come il ferro incandescente in un cielo spazzato di tutto. E selve germoglianti di giallo, di rosa, di verde. Le forme, in altri soggetti, si avvitano, si contorcono, si inseguono o rincorrono in processi di ribellione, trasfigurando la materia pittorica. Ciò che è plastico diventa dinamico. Il paesaggio, come quelli dell’Etna, si infuoca, diventa tortuoso, sprofonda nel baratro di cenere e zolfo, con quella libertà che è consentita ai poeti, ai matti, agli artisti. E al mare quando corre, infuria, si dimena e travolge, per diventare, altrove, mistero segreto della seduzione attraverso linee morbide, sinuose, acquietanti.
Ci sono, in sintesi, due generi di pittura nell’universo dell’arte di Santomarco: uno che si rivolge agli occhi, alle impressioni che lo sguardo ne coglie, e un altro che va al di là degli occhi, dal momento che usa il colore per qualcosa d’altro. A Santomarco, oggi, il tubetto del colore interessa per raccontare quello che gli sta a cuore, quello che am; per arrivare all’idea nella sua più autentica concettualizzazione. Ormai la sua arte non è più uno specchio per restituirci le immagini del mondo, ma è un’avventura destinata a riportarci dentro la bellezza più segreta del mondo.
Salvatore Di Fazio
Salvatore Di Fazio [Critico d'Arte]
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