CORPO E COLORE
E’ possibile tradurre il corpo in colore? E’ possibile, per esempio nella pittura di Nazareno De Santis. Mi sembra questo, anzi, il centro più singolare della sua poliedrica ricerca: una ricerca che ha preso inizio dallo studio della rappresentazione figurativa, ma si è poi mossa anfibia lungo questi ultimi decenni, fra informale, performance, sperimentazione concettuale.
E, appunto, pittura.
Il corpo come colore, dunque. Nelle radiografie di Nazareno i particolari realistici, anzi ultrarealistici (che cosa c’è di più fedele al vero di una fotografia a raggi X?) diventano il punto di partenza per una declinazione visionaria delle forme, per un viaggio dentro e oltre il corpo. La forma anatomica, insomma diventa ombra, alone, spettralità. Diventa un paesaggio allarmato, fra sogno e incubo, quasi un fondale di albe oniriche e di tramonti mentali.
Proprio questo sguardo di Nazareno si rivela confusivo. Confusivo (non confuso, che è ben altra cosa) esattamente come era confusivo lo sguardo del piccolo Hans, di cui parla Freud. Il rocchetto con cui il bambino giocava poteva di volta in volta diventare suo padre, sua madre, lui stesso. E qualcosa di simile avviene nella pittura di Nazareno. I suoi crani – fantasmi, danno luogo a forme inaspettate, che possono essere di volta in volta qualsiasi cosa.
Può sembrare di intuire l’immagine di una bambina, di un matrimonio, di due amiche. Un sottile senso di vertigine ci cattura, nel constatare la distanza che separa la distanza tra essere e apparire.
Ma torniamo al colore. Siamo abituati a pensare alla statuaria classica nel candore del marmo o nella luce oscura del bronzo. E invece l’archeologia ci ha dimostrato che, come i templi greci erano colorati, così anche le sculture avevano occhi, labbra, capelli ottenuti con inserzioni di materiali diversi e con sottili effetti cromatici. Patine e pigmenti, poi, arricchivano la dimensione coloristica.
Una simile inversione di prospettiva ci è richiesta anche dall’opera di un artista assolutamente lontano dalla classicità, come è appunto Nazareno. I teschi non sono più grigi, le varie parti del corpo non hanno più un carattere cromatico prevedibile. Tutto si trasforma, tutto è preda di una inspiegabile metamorfosi.
Non si deve pensare, però, ad effetti estetizzanti.
Al contrario, mi pare proprio che queste fantasmagorie di toni evaporanti, anziché la bellezza, favoriscano una riflessione sull’esistenza. Nazareno non cerca il colore perché sia bello. Cerca il colore, perché il colore come ogni forma di luce, è legato a un tempo momentaneo, provvisorio. Muta, si accende, si spegne.
La sua constatazione scientifica della fragilità umana, non dà però luogo a un teatro dell’angoscia, e nemmeno a considerazioni amare. Al contrario, si assiste al manifestarsi di una vena non ironica ma vitalistica: quasi che da questi reperti archeologici (un’archeologia del corpo e della mente si può considerare la pittura di Nazareno) scaturisca un rinnovato amor vitae.
Una strana euforia percorre questa pittura. Già perché la musa che presiede a queste opere non è la Malinconia, ma è piuttosto la Sibilla.
Quello che interessa a Nazareno è suggerire la dimensione di enigma che si ritrova in ogni cosa inclusi i momenti e gli incontri più significativi della nostra esistenza.
Il corpo come mistero, dunque. Proprio ciò che ci è più famigliare, ciò che in definitiva siamo, è quanto di più sconosciuto esista.
E appunto questo è uno degli insegnamenti dell’opera di Nazareno: un insegnamento su cui c’è sempre da riflettere.
Talvolta la sua pittura diventa performance, la fotografia diventa pittura. Il corpo (quello dipinto e radiografato) è il protagonista di una pièce misteriosa, di un assolo o di un monologo senza parole, in cui il copione è muto, ma non per questo è meno eloquente.
Cinzia Tesio [Critico d'Arte]
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