Porto Franco - Vittorio Sgarbi
MONICA MARTINS
Non ho niente contro l’arte digitale. Chi mi conosce sa che sono affezionato alle arti fatte con mezzi tradizionali, specie quando presuppongono da parte dell’artista una precisa capacità artigianale, ma non disdegno affatto di prendere in considerazione qualsiasi mezzo ed espressione che abbia qualcosa di interessante da proporre, nello spirito democratico dell’et et, piuttosto che dell’aut aut, come ho più volte avuto modo di dimostrare, non in ultimo con il Padiglione Italia e la Biennale “diffusa”, fra Venezia e il resto d’Italia, del 2011.
Ben venga, perciò, anche l’arte digitale, dalla quale, peraltro, confesso che mi sarei atteso qualcosa di più di quanto non abbia finora offerto. Quando è apparsa, ormai diversi decenni fa, con i primi, pionieristici Oscillogrammi, sembrava promettere una rivoluzione copernicana, almeno come quella che il computer ha determinato in altri campi, inaugurando una nuova dimensione dell’espressione. A distanza di tempo, direi che questa rivoluzione, se mai si dimostrerà tale, è ancora lontana dal manifestarsi, essendo l’aspetto più interessante dell’arte digitale non tanto la novità in sé e per sé della creazione, quanto il fatto di impiegare mezzi di elaborazione dell’immagine immensamente più sofisticati e di rapido utilizzo rispetto a quelli esistenti prima del personal computer. Non a caso, molta di questa arte ha carattere grafico, anche quando, proprio grazie alla straordinarietà del mezzo di elaborazione, sarebbe capace di concepire opere che possono comodamente sfuggire alle tradizionali distinzioni fra fotografia e cinematografia o fra pittura e animazione.
Ammetto, però, che dovrei conoscere di più e meglio per avere le idee più chiare a riguardo, sforzandomi di andare oltre la scarsa attrazione che provo verso le forme in fase di sperimentazione permanente. In ciò, mi può aiutare anche l’esperienza di Monica Martins, brasiliana di nascita, laureatasi a Pernambuco in critica d’arte e letteraria, trasferitasi prima a Dublino, poi in Italia, a Vittorio Veneto, con la forte voglia non solo di scrivere di arte altrui, ma di essere lei stessa artista in prima persona. Artista digitale, e, per quanto riesco a capire dalle opere che ho sotto gli occhi, di natura grafica, secondo quella tendenza prevalente che avevo già individuato. Non sono, però, opere a vocazione multimediale, o comunque trasversali fra disciplina e disciplina, classificazione e classificazione: sia che risultino immaginifiche al massimo, a solcare frontiere inesplorate dell’astrattismo, di aura cosmica, direi, sia che mantengano un’aderenza al dato reale attraverso il
rimando a una base fotografica, sono comunque immagini da cavalletto elettronico, per così dire, da quadro numerico, direbbero i francesi, nelle quali i moderni pixel fungono da colori e pennelli di una volta, per chi li considerasse - di sicuro non io - obsoleti.
Davanti a un’opera tradizionale, realizzata con mezzi che più di tanto non possono dare, ci sorprendiamo delle meravigliose capacità dell’artista di creare con poco, rievocando il processo con cui Dio ha creato l’universo. Se abituati in questo modo, è facile che il digitale ci sembri capovolgere il discorso: davanti alle possibilità dell’elaborazione digitale, sterminate come l’universo, l’artista finisce per porsi come limite di un continuum infinito, in una lotta impari che lo porta a rinunciare all’emulazione di Dio. Ma è la maniera giusta di vedere le cose? Osservando le opere della Martins, comincio a ricredermi. Non c’è dubbio, la creatività potenziale del digitale è infinita, ma finché l’artista non decide di limitarla alla sola impiegata nella sua opera, rimane un’entità indefinita e indefinibile, come uno di quei numeri all’ennesima potenza dell’astrofisica che stordiscono, invece di darci l’idea precisa di qualcosa. Finché non preghiamo, rivolgendoci direttamente a Dio, non avremmo mai percezione concreta di un’immensità altrimenti incommensurabile rispetto ai nostri parametri. E allora, rispetto all’arte tradizionale, la digitale non muta poi di molto l’orizzonte: l’importante non è quello che i mezzi ti avrebbero concesso di fare, ma quello che hai fatto, la capacità di esprimere e comunicare un modo di sentire il mondo, di confrontarsi con esso, di immaginarlo, di reinventarlo, indipendentemente da come lo si è ottenuto. Proprio questa volontà di appropriamento e umanizzazione della “freddezza” digitale, di personalizzazione del tendenzialmente spersonalizzante, constato nelle opere digitali della Martins, che hanno avuto il merito di avermi fatto inquadrare meglio certi aspetti dell’estetica via computer. Cosa di cui non posso che ringraziarla.
Vittorio Sgarbi
Critico e Storico d'Arte
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