Miguel Angel Cuevas intervista Massimo Casagrande

Parlando con Massimo Casagrande
Siviglia 22 giugno 2009
Con Massimo Casagrande ci siamo conosciuti nel 2004, soltanto cinque anni fa, in ragione di una mostra da lui organizzata in Veneto, a Cittadella-Padova. Avevo già visto alcuni suoi dipinti, alla Galleria Artenvielfalt di Monaco di Baviera. Ne ero rimasto colpito. Poi, incontrando l’artista, parlando con lui, condividendo qualche serata direi eccessiva, mi è sembrato subito che ci conoscessimo da una vita. Ho scritto su di lui un raccontino scherzoso; vi si legge, appunto tra gli scherzi: “Il midollo è dipinto: il segreto delle forme si nasconde nel loro non essere forme, soltanto materia, argilla logorata, persino le mani sporche che la dipingono diventano anch’esse materia del dipinto. Come se avvicinassi molto al muro l’obiettivo della macchina fotografica: cancelli i limiti e il muro, la forma, sparisce, vedi solo particelle, sabbia, impasto, orme di umidità, macchie, sostanza informe dove l’occhio si smarrisce. –E quei semicerchi oscuri che si aprono su ambo i lati? –Una resa al capriccio della forma che comunque ogni tanto riappare. –Ma se guardi lo spazio chiaro che delimitano quelle mezze lune anzichè guardare la loro oscurità, cosa vedi? –Non ti ostinare: un’orma schietta d’umidità imperscrutabile.” Mi scuserete l’autocitazione; ma volevo, ecco, partire da qui, da queste orme schiette imperscrutabili.
M.A.C: Oltre alla memoria di tuo padre pittore, la tua formazione si è attuata in parte, come una volta accadeva, lavorando nella bottega di un maestro affreschista, Mario Filippin. Alcuni critici hanno appunto affermato che i tuoi dipinti significhino una sorta di trasferimento su legno, su tela, della tecnica dell’affresco. Ma non voglio chiederti soltanto di questioni tecniche: vorrei mi parlassi dell’idea di muro: luogo deputato dell’incontro tra la materia e la forma.
M.C.: Grande Mario, ora non ce più e preferirei non parlarne! Certo, in quel periodo, alcuni critici hanno etichettato i mie lavori come degli “affreschi contemporanei” ma non credo tanto per la resa estetica -cercavo in tutti i modi di imitare l’azione distruttrice del tempo- pittosto per la velocità di esecuzione. In quel periodo usavo la vetroresina ed i tempi di lavorazione sono molto veloci e come sull’affresco non puoi permetterti di sbagliare. Il muro, bella domanda! Chiusura, soffocamento, prigione, grida, buio, ma anche sfida, insomma lo voglio giù!!!
M.A.C.: Ecco, anche questa potrebbe intitolarsi, come alcune pagine scritte da Antoni Tàpies, Conversazione sul muro. A proposito: a volte la critica ti ha dichiarato seguace ideale del maestro catalano. Ti chiederei però di parlare un po’ in modo più generale sull’eredità dell’informalismo nella tua pittura.
M.C.: Beh, forse seguace ideale non proprio, lo ammiro e diciamo che le opere del maestro sicuramente mi eccitano e mi fanno restare senza respiro. Sensazione Stupenda!!! Per quanto riguarda l’informale lo condivido nel suo totale. Amo la sfida con la materia, metterci le mani dentro, cercare di plasmarla per poi riuscirci, a volte, e adoro pure la definizione più intelettuale del termine, “ignorare ogni forma di accademismo”.Credo che sia importantissimo studiare le tecniche ma lo spirito deve essere tuo, solo tuo! E’ anche vero che farsi spazio in questo mondo, senza aver fatto l’accademia o aver leccato il culo di qualcuno, non è assolutamente facile. Solo quelli forti ci riescono, eh eh eh!!!
M.A.C.: Cambiando argomento –ma ci torneremo- volevo domandarti sulle tue incursioni nei territori del concettuale: Una performance ed una installazione: Sugar free e Ho lavato i panni sporchi. Credo che anche qui tu abbia cercato l’originalità nel vero senso del termine, cioè nel senso etimologico: originalità quale ricerca delle origini. Nella fattispecie i panni sporchi non più sporchi anzi freschi di bucato, rimandano nella mia interpretazione a due dei capostipiti dell’arte novecentesca, Malevich e Duchamp, al suprematismo e al ready made, al bianco su bianco e ai cessi capovolti –anche in senso metaforico.
M.C.: Da qualche anno sto sperimentando azioni concettuali che apparentemente si discostano dall’opera pittorica. In realta sono contigui. Ogni opera o ciclo che realizzo esprimono fin dall’inizio l’ intento di voler sopprimere il marcio, il dolore, la negatività. Nella video performance Sugar Free l’azione stava nella manipolazione del potere verso i più deboli, mentre in Ho lavato i panni sporchi l’atto è da considerarsi come pentimento, volontà di ricominciare anche dopo aver commesso degli errori. Io sbaglio un sacco di volte!!!
M.A.C.: Non fuor di metafora, anzi, entrando nei luoghi altri, nei luoghi eteronimi che il concettuale convoca: entriamo nei recessi del potere. Raccontaci un po’ della tua storia con Armani durante la tua installazione di Via Montenapoleone.
M.C.: Ooh che bella giornata quella. Mi avevano commissionato un’installazione al n.2 di Via Montenapoleone, lo staff di Armani, adiacente allo spazio, ha ritenuto l’opera troppo “esagerata”, disturbava l’immagine del brand e me l’hanno gettata in un sotto scala, e non capisco perchè. Era solo uno stendi biancheria con delle calze appese ed un paio di mutande a terra. Nere!!!
M.A.C.: “Forse tutto ciò che chiamiamo spirito non è che il movimiento della materia”, ebbe a scrivere Malevich. Tu hai insistito sulla dimensione consolatoria che vuoi dare alle tue proposte espressive; ne parli ogni volta che si presenta l’occasione: siamo stati feriti, siamo feriti anzi, ma non vogliamo più guardare le nostre piaghe, finiremo col leccarcele e non guariremmo mai. Cerchiamo di entrare nel dopo, cerchiamo di salvare noi stessi. L’ultimo ciclo della tua opera l’hai intitolato appunto Interventi.
M.C.: Sì! Pretendo che questi Interventi, anche se i “più” li chiamano “ferite”, e non è così, siano un trampolino, un mezzo per raggiungere percezioni più lontane. Con ciò voglio dire che in questo ciclo l’immagine non deve essere considerata come un pretesto il cui ruolo si limita a sostenere componenti plastici, e quindi porti il fruitore dinanzi ad una visione epigrafica, ma deve essere osservata come possibile salvezza.
M.A.C.: Una volta ho presentato una tua mostra a Padova: dicevo allora che nei tuoi dipinti fai vedere l’incàvo, la matrice della larva. Facevo riferimento alla grande ricerca umana e artistica del più alto tra gli scultori del Novecento, il basco Jorge Oteiza. Nelle sue opere, anche poetiche, il vuoto è tutt’altro che vacuità: è spazio costruito per la sanazione, rifugio, non svuotamento ma disseppellimento. Ecco che torniamo alle forme che non sono più, alla materia forma di sè stessa: ecco superato il divario tra il materiale e lo spirituale. Mi pare che le tue nuove proposte abbiano molto a che vedere con tutto ciò, che tu abbia proprio voce in capitolo.
M.C. Condivido pienamente caro Miguel, togliamo il superfluo, a cosa serve! Ed è un onore per me che tu abbia percepito questo dalle mie opere. Al tempo presentavo Prestigio delle rovine che si avvicina molto alla poetica di Otezia, il grande Oteiza, ho i brividi e sai cosa ti dico, me li godo tutti. Finiamo qui va!
M.A.C.: Finiamo.
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