IL LINGUAGGIO
IL LINGUAGGIO (Fiorenzo Mascgana)
Ad un certo punto della preistoria, in una notte di luna piena, l'uomo primitivo si ritrovò sulla riva del mare. Raccolse da terra un bastone portato a riva dalle onde, e, con quel bastone, tracciò un segno circolare sulla sabbia, poi rivolgendosi verso quella che presumibilmente era la sua compagna, indicò il cerchio della Luna.
Questo aneddoto, che per esigenze di copione, voglio pensare come romantico, è la prima pietra di questo grande edificio costituito dal linguaggio, attraverso il quale ha potuto svilupparsi la storia dell'uomo.
Accertato che i primi documentati tentativi di descrivere il reale furono pittorici e non verbali, per comprendere meglio il cammino dell'uomo che conduce fino ai nostri giorni, diventa in qualche modo necessario addentrarci nelle ansie che dovevano essere radicate in un individuo che, quando veniva la notte, non sapeva se tornava il giorno. Nel momento in cui l’uomo tracciò quel segno sulla sabbia, si ritrovò immerso non soltanto in un mondo della natura che non conosceva e che anzi temeva, si trovò immerso in un mondo fatto di linguaggio.
Gli oggetti, per noi, sono le parole che li esprimono, i pensieri, sono le parole attraverso le quali pensare. Nel corso del tempo abbiamo dato significato alle cose e questi significati ci vengono restituiti e ci parlano alla luce di quello che ci abbiamo sedimentato sopra. L'uomo che percorre l'esaltante strada del progresso tende ad appropriarsi dei linguaggi del mondo. E’ così che la natura dapprima ostile è diventata una natura che ci parla. La nostra esistenza è diversa da quella del nostro simile che quando incontrava un animale non sapeva se era erbivoro o carnivoro o che quando si trovava di fronte ad un fenomeno naturale non sapeva se gioirne o provarne terrore. Resta in ogni modo evidente che dalla comparsa dell'uomo sulla faccia della Terra ad oggi, il denominatore comune tra noi ed il nostro lontano parente è stabilito dalle necessità vitali che sono alla base della nostra esistenza terrena.
Tutte le attività previste dalle condizioni di allora, devono essere iscritte in questa dimensione, arte compresa, o meglio, quella che noi oggi chiamiamo arte e che allora era un modo per prolungare l'esercizio di una volontà legata a bisogni naturali.
Da quei giorni sono cambiate tante cose e molte delle incertezze che lastricavano la strada dell'uomo hanno trovato soluzione. Si sono andate affinando le tecniche che hanno reso possibile la definizione di una linea evolutiva; eppure si andava a cavallo al tempo dei faraoni e si è andati a cavallo fino a tutto l’Ottocento.
Il progresso di cui siamo beneficiari è cosa recente. Il vero grande impulso di questa costante rivoluzione lo facciamo risalire di solito al Rinascimento; come data ci è venuto comodo farla coincidere con la scoperta dell'America (1492).
Far riferimento alle date è un modo facile per orientarci nei confronti di un periodo, è una convenzione che se non ha il pregio di dirci tutta la verità, almeno ha quello di andarci vicino. 1492 e 1815 rappresentano i confini entro i quali la modernità ha potuto dispiegare molte delle potenzialità che ci hanno permesso di beneficiare di quell'agiatezza, impensabile soltanto qualche secolo fa.
Il percorso dell'uomo è più complesso di quanto una presunta linearità della storia possa lasciarci immaginare. Non tutti hanno potuto incamminarsi nel sentiero aperto dai maestri e non poche delle tribù di questo mondo, attualmente, sono all'interno dell'età del ferro.
Quando in pieno atteggiamento modernistico Picasso disse che tutte le epoche passate sono consegnate alla storia, mentre quella primitiva respira dentro di noi, intendeva sollevare una afferma
zione di valore che trova riscontro in quanto è stato detto a proposito del denominatore comune di tutte le civiltà del mondo, siano esse evolute o ancorate a stadi primitivi. Tutti abbiamo bisogno di mangiare, bere, fare l’amore, crescere i nostri figli, credere in qualcuno o in qualcosa.
Da questo punto di vista, e non è un punto di vista marginale, tra noi e l'uomo primitivo non c'è alcuna differenza. Il cordone ombelicale che ci lega alle origini si salva costantemente attraverso i bisogni primari.
Ci sono aspetti dell'umanità che, per quanto lontani nel tempo, li sentiamo vicini e costituiscono un naturale punto di ripartenza per nuove analisi comportamentali che di volta in volta allargano la conoscenza delle nostre stesse origini.
E' proprio questo costante ritorno al passato che ci consente l'individuazione di punti fermi costituiti da autentici crocevia che, per comodità, chiamiamo rivoluzioni epocali.
Se l'uomo ha potuto incamminarsi su strade diverse da quelle primordiali, lo deve essenzialmente alla capacità linguistica di comprendere il mondo ed a quella di aver saputo imporre il proprio linguaggio, costruendo attorno ad esso le estensioni materiali che ne hanno connaturato le conquiste.
Primato linguistico.
La vera grande rivoluzione per l'uomo avvenne quando, attraverso vari tentativi, scoprì di poter far conto sull'agricoltura. Circoscrivere un territorio non è soltanto compiere un'operazione sociale di carattere economico. E’ in primo luogo, dar vita ad una dimensione linguistica.
L'albero incontrato durante la caccia non è lo stesso albero visto crescere all'interno di uno spazio delimitato. L'albero coltivato, da piccolo diventa grande: prima foglie minuscole di colore chiaro, poi l'albero cresce e si infittiscono i rami, le foglie si allargano ed i frutti aumentano di dimensione fino a completare il ciclo di crescita. L'albero perde infine le foglie, cade in letargo e si risveglia in primavera.
Il “significante” albero, in questo caso, genera tanti significati, laddove invece l'albero incontrato durante l'esercizio della caccia, non conosciuto nel suo sviluppo, fa corrispondere ad un “significante” il significato del momento. In fondo la vera grande differenza che passa tra l’uomo ed ogni altro animale è nella capacità che l’uomo ha di far corrispondere ai “significanti” che ha a disposizione “significati” diversi. La differenza tra un musicista che compone musica ed un uccello che canta, non è nelle note che si mettono o nell'armonia che si ottiene. L'uccello che canta esprime un richiamo e quindi ad un “significante” fa corrispondere un solo “significato”, un musicista che compone musica, con sette note, fa tante altre cose, laddove l'animale resta a livello di segnale.
L'uso consapevole del linguaggio ovviamente non è da riferirsi a questi primi tentativi di definire nuovi spazi di realtà. Sarebbe sbagliato dire che la prima preoccupazione dell’uomo fu di natura linguistica. Attraverso il bisogno primario di sostentamento il genere umano ha dato vita inconsapevolmente a modi che potessero corrispondere a questo bisogno. La conoscenza linguistica del mondo ha prodotto benefici utilizzabili per fini di sviluppo e di sopravvivenza.
Quello che si è andato determinando nel corso del tempo è il primato linguistico che ha compreso il rapporto dell'uomo con il suo ambiente ed il rapporto dell'uomo con se stesso. A distanza di molti secoli si è potuto comprendere quello che istintivamente l'umanità ha prodotto in termini di crescita sociale, senza averne necessariamente consapevolezza.
Il linguaggio è valido in quanto esiste, non richiede alcun fondamento. Analizzarne livelli e comprenderne il funzionamento è senz'altro utile a chi deve farne un uso consapevole, ma per milioni di individui di diversa estrazione sociale e culturale che ne fanno uso per comunicare tra loro, è solo indispensabile che venga usato. D'altra parte, per questo ci è solo necessario nascere all'interno di una comunità. Dire che la diacronia si perfeziona nella sincronia è l'avere a che fare con forme linguistiche che si evolvono nell'adattarsi all'uso delle comunità sociali.
I livelli del linguaggio.
Il linguaggio è composto da “significante e significato”. Il bambino dice “mamma”: la parola “mamma” è il significante, il fatto che la mamma corra dal bambino quando viene chiamata, è il significato. La composizione del linguaggio è data da tre livelli: grammaticale, semantico e pragmatico. Semplifichiamo. Il bambino dice “mamma” e la mamma corre. La parola “mamma” è di livello grammaticale in quanto propria della lingua parlata dal bambino e dalla madre.
Il bambino può chiamare la mamma per infinite ragioni; da un punto di vista grammaticale il bambino che dice “mamma” (perché è felice o perché ha paura) sono la stessa cosa, il come il bambino dice “mamma” sta ad indicare il livello semantico. Il livello pragmatico è dato da cosa il bambino vuole ottenere dicendo la parola “mamma”.
Questi livelli sono propri di tutte le forme linguistiche fruibili e rappresentano la struttura del linguaggio, sia esso parlato che di altro genere. Vediamo se va meglio con un altro esempio.
Il pittore dipinge un quadro tutto rosso. Il colore rosso è di livello grammaticale in quanto viene riconosciuto come colore rosso da chi guarda il quadro. L'artista decide di stendere il colore in maniera non uniforme: il come il pittore dipinge la tela è di valore semantico, il cosa vuole ottenere con il colore rosso ed il suo modo di utilizzarlo sul quadro è di livello pragmatico.
Le funzioni del linguaggio.
Non è finita, perché oltre che di tre livelli, il linguaggio si compone anche di due funzioni che corrispondono a quella comunicativa ed a quella espressiva. La funzione comunicativa rimanda ad un'intenzione chiara ed inequivocabile: può essere il linguaggio delle bandierine, il segnale di stop, quello di pericolo, il semaforo all'angolo della strada.
La funzione puramente espressiva è un po' la nostra lingua personale quando vogliamo parlare a noi stessi senza farci capire dagli altri, è spesso il linguaggio dell'arte e della poesia, è il significante che si presta a molti significati, a differenza del linguaggio puramente comunicativo che fa corrispondere ad un significante un solo significato. Figuriamoci se il semaforo si prestasse ad una libera interpretazione da parte dell’autista, o se il segnale di pericolo fosse dipinto di rosa, che disastro. Il linguaggio con il quale comunichiamo nei diversi ambiti della vita quotidiana non è mai del tutto comunicativo o del tutto espressivo. Se fosse del tutto comunicativo sarebbe piatto, se fosse unicamente espressivo risulterebbe incomprensibile agli altri.
Le due funzioni linguistiche sono fondamentali perché rappresentano il limite entro il quale tutto il linguaggio si muove. Ci si avvale di entrambe le funzioni alternandone l'efficacia. Esattamente come tra il bianco ed il nero sono comprese la chiarezza e l'oscurità, così le due funzioni rappresentano le sponde entro le quali corre il fiume del linguaggio.
Comunicazione ed espressione sono concetti polari, come sono concetti polari alto e basso, bello e brutto, giorno e notte. Per comprendere quanto la nostra esistenza dipenda da questo spostamento all'interno delle funzioni limite, basta ricordare che per noi un pensiero che non ha un suo opposto non esiste. Quando non sappiamo il significato di una parola è perché non ne conosciamo il suo contrario. Abbiamo consapevolezza del bello perché sappiamo cos'è il brutto, diciamo di una persona che è intelligente sapendo cos’è la stupidità nelle persone, ci diciamo felici perché per una volta almeno nella vita siamo stati tristi.
La tendenza linguistica, è quella di utilizzare entrambe le funzioni contemporaneamente facendo in modo che l'una non disattivi l'altra. La nostra è una aspirazione all'equilibrio, è un po' il solcare questo ipotetico fiume tenendoci equidistanti dalle sponde, salvo avere una capacità tale di movimento che ci consenta di recuperare velocemente eventuali squilibri.
Il primo strumento di indagine che può farci comprendere molte cose è il nostro stesso corpo. Mettiamoci davanti allo specchio per una volta non con l’ intento di controllare l'evoluzione dell'ultima ruga o il taglio più o meno felice dei capelli. Lo specchio ci dirà che il paradigma dei concetti polari è nella nostra fisicità. Il nostro corpo si compone di una parte sinistra e di una parte destra. Sappiamo che l'integrità fisica è data dal funzionamento delle parti che formano una parte intera. Respiriamo da due narici, guardiamo con due occhi, muoviamo le mani e camminiamo usando entrambe le gambe.
Figurazione.
Sebbene l'uomo venga al mondo da sempre con lo stesso armamentario di occhi, cuore, braccia e gambe, ha preso coscienza della simmetria piuttosto tardi, almeno rispetto alle sue origini.
La bellezza non nasce come ideale di umanità ma come forma studiata di rappresentazione; trova nel Neolitico, con la nascita della ceramica, il suo sviluppo. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è stato spesso descritto come indecifrabile e non coerente. L'uomo da cacciatore inaugura un tipo di vita più incline all'agricoltura e all'allevamento del bestiame. Siamo in presenza, senza alcun dubbio di quello che noi definiremmo progresso sociale. Ottomila anni fa a Gerico, non solo era conosciuta la ruota, ma già esisteva una organizzazione sociale del territorio. Le immagini organiche corrispondenti a rappresentazioni di animali, che avevano contraddistinto il Paleolitico, nel passaggio successivo (Neolitico), meglio conosciuto come età del ferro, cedono il passo a ripetitive ed ossessionanti rappresentazioni geometriche. La figurazione che, nell'epoca precedente, aveva sancito lo stretto legame tra esigenza vitale e manifestazione estetica del rito, inspiegabilmente perde la sua funzione principale di strumento evocativo. La storia ci ha abituati a far corrispondere ad epoche di benessere sociale un'immagine esterna, attraverso l'arte, dello stesso benessere. Il problema non è quello di far viaggiare necessariamente l'arte su una linea evolutiva, perché sappiamo che l'arte non ha evoluzione, è semmai uno dei modi attraverso i quali l'uomo vede il mondo. Il problema è di altra natura. Le rappresentazioni geometriche che hanno sancito piena consapevolezza della simmetria e la nascita della matematica come riflessione nei confronti dei risultati estetici, comportarono probabilmente un cambiamento radicale della visione del mondo.
Magia e religione.
Ricerche effettuate presso tribù aborigene della Nuova Guinea ci dicono che le figurazioni geometriche sono strettamente connesse ad un sentimento di paura, di ansia cosmica, e che attraverso il geometrico, si tenta di stabilire una forma di contatto con l'ultraterreno.
E' come se nel Neolitico l'esistenza dell'uomo avesse trovato un nuovo inizio. Le manifestazioni estetiche legate alla magia che avevano rappresentato la volontà dell’uomo di procedere per conto proprio alla determinazione del destino, cedono il passo ad atteggiamenti di figurazione geometrica. Da un punto di vista linguistico il significante “animale trafitto” che, nell’epoca precedente, aveva un significato evocativo chiaro, cede il testimone ad un periodo fondato su presupposti religiosi.
Il passaggio dalla magia alla religione evidenziato da un diverso linguaggio espressivo, pone la questione del fallimento in cui l’uomo si ritrovò dopo essersi reso conto di non riuscire, attraverso la pratica magica, a modificare gli eventi a suo sfavore. Questa sorta di ammissione di impotenza, provocò un diverso atteggiamento linguistico. La magia che era stata una protesi della sua stessa volontà si rivelò inefficace al fine del raggiungimento del proprio benessere sociale e individuale, quindi, la scelta più naturale fu quella di delegare a spiriti più potenti l'azione diretta nei confronti degli eventi.
L'astrazione ed il linguaggio geometrico meglio si adattano a questo tipo di comunicazione rivolta all'immateriale. Il passaggio indicato determinò probabilmente un'ansia cosmica tale da generare profonde incertezze. Astrazione.
Con la scoperta della ceramica si inaugurò una nuova fase rivoluzionaria rispetto a quanto l'uomo aveva prodotto in precedenza. La consapevolezza della simmetria gestuale, stimolata dalla costruzione di oggetti circolari, implicò anche un altro tipo di riflessione riferita all'oggetto costruito che, se da un lato diventò contenitore, dall'altro evidenziò la sua caratteristica di superficie adatta ad accogliere motivi decorativi.
Nella sostanza, l'uomo si trovò a trasferire il suo pensiero figurativo dalla parete della caverna al vaso. Un'operazione del genere implica notevoli capacità di astrazione, perché come è ovvio, quello che poteva essere fatto su una parete, non poteva essere contenuto nella ceramica.
Quando si dice che la matematica nasce come riflessione sui risultati artistici, si fa riferimento a questa capacità di astrazione che nel Neolitico trovò terreno fertile in seguito all’esigenza di ridurre la figurazione a simbolo. Tra la formula matematica e la riduzione a simbolo della figura non c'è differenza. In entrambi i casi il concetto non viene soppresso ma dominato. L’uomo riferì a segni e simboli situazioni reali, questi segni e simboli potevano essere letti e prodotti da chi deteneva la chiave di quella forma di linguaggio. E' quello che potrebbe capitare a noi entrando in un'aula dove si insegna fisica. Troveremmo, scritti alla lavagna, incomprensibili segni. Quelli che per noi sarebbero incomprensibili segni, per gli studenti di quella facoltà sono formule dalle quali ricavare un pensiero matematico.
Bello e vitale.
Vitalità e bellezza sono gli elementi distintivi dell’arte, viene spontaneo assimilarli alle due funzioni limite del linguaggio, (comunicazione ed espressione). Possiamo dire che costituiscono l’ossatura di qualsiasi produzione estetica.
Se la vitalità aveva contraddistinto il Paleolitico, determinando nell’arte, vincoli di indissolubilità con le esigenze primarie della vita terrena, il Neolitico attraverso il geometrico pone l’accento sul controllo matematico dell’oggetto estetico. Il ritorno successivo alla figurazione organica che ritroviamo nella fase “sincretistica” fu un tener conto delle esperienze precedenti. Ricomparve la figura compresa entro uno schema coerente e la selvaggia immaginazione dell’uomo, per mezzo della geometria venne definitivamente addomesticata Una sempre maggiore capacità di modulazione tra vitalità e bellezza permise la realizzazione del “classico” che è presenza nell’opera di queste due funzioni nella stessa misura.
Quello che ammiriamo nella classicità greca è il raggiungimento di un equilibrio difficile da raggiungere ed ancor più complicato da mantenere. Da questo momento la conoscenza si fa “coscienza”del ruolo di queste funzioni dell’arte che, da puramente vitale o estetica, diventa politica.
Se da un lato si assiste alla progressiva perdita della naturalezza che aveva caratterizzato i periodi precedenti, dove l’uomo nasceva necessariamente artista, dall’altro ci si avvia verso la costruzione di un linguaggio estetico di natura sincretistico, in grado cioè di parlare una lingua rivolta agli spiriti e all’uomo. La costruzione del tempio, la scultura che raffigura la divinità ne sono l’esempio eloquente. Se in Grecia ha potuto svilupparsi un’arte che non esiteremmo a definire bella e vitale, questo è stato possibile in primo luogo grazie all’esigenza di raffigurare le divinità.
L’immagine divina compresa dentro uno schema coerente è la costruzione del corpo inteso come casa che deve ospitare uno spirito perfetto e sovrumano. Il contenitore dato dal corpo, deve essere altrettanto perfetto come lo spirito che ospita.
Quello che la “paganità” ha evidenziato è l’idea di fusione tra perfezione materiale e immateriale. Il classico è il raggiungimento di questo equilibrio nella sua massima espressione di vitalità e bellezza.
Decadenza e bellezza.
La decadenza nell’arte non corrisponde alla perdita della funzione estetica della bellezza, ma alla sua stessa esasperazione virtuosistica che tende a svuotare la forma, privandola del contenuto. La differenza tra l’originale della scultura greca e la copia romana non è nella riproduzione delle vesti, è nella non riproducibilità dello spirito che ha animato l’opera. Il declino di ogni periodo storico è caratterizzato da potenti manifestazioni esteriori.
La classicità che aveva raggiunto con Fidia questo meraviglioso equilibrio tra vitalità e bellezza, nell’epoca ellenistica si dissolve nel virtuosismo del panneggio.
Più o meno il sommario dell’arte, dal punto di vista della psicologia della forma, può essere compreso tra il Paleolitico e la stagione ellenistica, almeno per quello che riguarda il rapporto tra vitalità e bellezza. Costruito il precedente il resto è modulazione degli elementi che ne hanno stabilito l’essenza. E’ come dire che da questo momento in poi, semplificando di molto, la questione dell’arte diventa una faccenda di “gonne lunghe e gonne corte”.
Se l’esteticità della copia romana ha prodotto una inevitabile frattura tra arte e filosofia, di certo ha inaugurato, attraverso la tecnica, una stagione caratterizzata dal forte legame tra arte e urbanistica, tra ritrattistica e politica.
Racconto e uso politico dell’arte.
La villa romana, la città abbellita, la pianificazione urbana, corrispondono ad un uso politico dell’arte, chiamata a corrispondere ad una precisa esigenza estetica di immagine del potere.
Torna in gioco il rapporto tra comunicazione ed espressione. Se l’arte greca ha potuto essere classica in quanto espressiva e comunicativa, l’arte romana, più spregiudicata, sposta l’attenzione su quell’elemento comunicativo che tende a somigliare allo spot pubblicitario, che poi, altro non è che l’autoaffermazione del prodotto visibile e visivo.
Questo tipo di spostamento funzionale all’opulenza di una società votata a manifestazioni di potere, si serve della potenza comunicativa dell’arte e ne fa uno strumento indispensabile al racconto. L’arte che fa a meno di se stessa per corrispondere ad una precisa volontà esterna è di fatto monca, apparentemente forte ma sostanzialmente fragile, perché non sostenuta da un’anima vitale. Dopo tutto se è vero, ed è vero, che le idee profonde non sono affatto comuni e che le idee comuni non sono affatto profonde, è chiarito il meccanismo che può fare dell’arte uno strumento di propaganda.
Messa fuori gioco la contemplazione che è la principale condizione che l’arte ha per continuare se stessa, resta l’arte come narrazione dell’evento, dove a decidere è l’evento stesso.
Le dominazioni barbariche successive e la conseguente riduzione a caos di un ordine stabilito hanno prodotto quel naturale ritorno al punto di origine della cosa, dove il potere non poteva essere più rappresentato dall’uomo in quanto tale, ma dall’uomo al servizio di un potere divino, meglio se elemento unico ( in teoria della percezione diremmo cosmogonico).
Non è che la consapevolezza divina sia stata inventata apposta, diciamo semplicemente che ad un certo punto della storia è tornata utile.
Ai nostri occhi questo periodo appare piuttosto oscuro.
L’immagine è quella di un uomo che sembra aver disimparato quello che le civiltà precedenti avevano lasciato in dote.
L’arte che, nell’epoca romana, attraverso il racconto, aveva parlato all’individuo, in quella cristiana si muta in simbolo, tenendo di fatto una posizione opposta alla precedente.
La croce come simbolo della cristianità assume valenza strutturale. La lingua parlata è la fede vissuta dai fedeli attraverso la croce.
L’autentico miracolo fu la trasversalità sociale della nuova religione. All’interno del partito unico della fede ognuno poteva ritagliarsi un ruolo e per secoli è sembrato che ogni ruolo fosse quello giusto. Gli azzeramenti, se hanno un vantaggio, hanno quello di potersi servire di uno statuto che dal momento in cui è in atto, rappresenta passato e presente.
Sorvoliamo sulle diverse interpretazioni che gli uomini hanno potuto fare della medesima cosa.
Poco alla volta la nuova arte fondata su presupposti teologici, elabora un linguaggio proprio che è in primo luogo esigenza collettiva. Se l’arte romana aveva esaltato le gesta del vincitore ponendo l’accento sulla glorificazione umana, il progetto cristiano inverte questa tendenza.
L’immagine che attraverso l’allegoria tende a diventare simbolo, si serve di fatto della funzione espressiva del linguaggio, in quanto lo spostamento è verso l’astrazione, ma allo stesso tempo la nuova esigenza impone che la sintesi ottenuta debba essere facile ed immediata. Da questo punto di vista la croce come simbolo assolve alla funzione data; laddove non è possibile stabilire simboli di facile lettura ci si rivolge all’allegoria.
Ecco come il pastore che pascola le pecore diventa il Cristo con i suoi fedeli. E’ importante che la figura possa essere riconosciuta per quello che rappresenta. Vitalità e Medioevo.
E’ la vitalità e non la bellezza la caratteristica dell’arte medioevale, proprio perché intimamente legata ad un pensiero teologico. E’la tecnica del mosaico quella che determina ancor di più il legame nei confronti della fede enfatizzando il carattere mistico della figurazione. Il mosaico semplifica il racconto, lo umanizza dal punto di vista della tecnica ma lascia alla luce il ruolo importante di completare l’oggetto. L’arte musiva si colloca a metà strada tra la pittura e la scultura, tra la figurazione e l’astrazione della figura stessa.
L’immagine che offre è stilizzata e sfuggente, aneddotica e mistica nello stesso tempo. Attraverso il mosaico si compie quella purificazione dell’arte che era nel programma del Cristianesimo.
Il nuovo panorama estetico culturale seppure diviso in microcosmi rappresentati principalmente da cattedrali e conventi è vincolato a quella unità di fondo sorretta dal principio teologico che ne regola i parametri di comportamento. Il collettivismo, la sobrietà, lo stretto legame con il territorio si fondono in quell’ideale architettonico che con il Romanico sfocerà nella nascita dei Comuni.
E’ attorno al Mille che questa omogeneità sostanziale si rende manifesta e visibile. La città fortificata è di fatto un allargamento dei confini del convento; dentro vi si svolge una vita comunitaria. Nel Medioevo, più che in altri periodi storici, l’arte è pensata come funzionale alla società, la quale, non prevede la prevalenza “del genio”. La grande unità di segno che ritroviamo nelle città medioevali data dall’utilizzo delle pietre locali, è il risultato di una volontà che tende ad omogeneizzare l’operato dell’uomo a vantaggio del primato religioso.
Il Romanico è un’altra fondamentale tappa di avvicinamento nei confronti dell’Umanesimo.
Si incomincia ad avvertire il bisogno della borghesia, emerge la necessità che qualcuno si sbrighi ad inventarla.
E’ con il Romanico che all’interno del pensiero teologico confluisce l’idea che in fondo Dio, creando l’uomo, non può avergli negato la possibilità di determinare il proprio destino.
Appaiono meno blasfeme molte cose, soprattutto la ricchezza che poteva tornare utile come contributo alla stessa fede.
Se l’uomo non si è ancora svegliato dalla notte medioevale, incomincia a girarsi nel letto e lancia precisi segnali alla storia che sta per accogliere il suo risveglio.
La prospettiva è in qualche modo simbolo di questa nuova stagione e corrisponde a quello spalancarsi di finestre sul mondo, sinonimo di risveglio. La prospettiva nasce come esigenza di un’epoca e non come bisogno del singolo individuo. L’arte come attività metaforica si trasforma in specchio, all’interno del quale la nuova civiltà ammira compiaciuta se stessa.
Fioriscono le botteghe, si inaugura una gara senza precedenti che ha come unico scopo la magnificenza. I risultati da ottenere attraverso i vari espedienti creativi e tecnici diventano metro di paragone con le civiltà precedenti. Il passaggio è quello che dal simbolo conduce alla figurazione intesa come esaltazione spirituale e materiale del bello. E’ la compresenza di comunicazione ed espressione, vitalità e bellezza, che fa del Rinascimento l’epoca classica per eccellenza.
Quella che viene a stabilirsi è una dimensione fertile di attività metaforica che affonda le radici nel passato per edificare il nuovo. Tutto quello che, per ragioni di contingenza storica, non può fiorire all’interno di quest’epoca, diventa seme per l’epoca successiva. Il Rinascimento, attraverso la prevalenza del genio, si costituisce laboratorio del divenire.
La storia non è mai tutta la storia possibile, è la traduzione in parole del gesto, dell’evento, dell’opera che si sostituisce al tempo, divenendo tempo di narrazione. Il percorso che dalla preistoria
giunge al Rinascimento è la costruzione di una dimensione linguistica che da semplice strumento di sopravvivenza si trasforma in esercizio di potere.
Se il Rinascimento attraverso Michelangelo aveva stabilito un nuovo parametro di rapporto tra società ed arte, alla critica di fine settecento spetterà il compito di solidificare ed ampliare questo trattato d’indipendenza dell’artista. Se la prospettiva rinascimentale si è costituita luogo consapevole d’incontro tra matematica ed arte, le grandi architetture del nostro tempo hanno costruito in seno a questo rapporto le loro fortune, seguendo di fatto il programma di genialità e logica della prospettiva. La grande differenza tra quest’epoca e quelle che l’hanno preceduta è nell’impostazione di un progetto legato al futuro. Probabilmente Leonardo sapeva già che non sarebbe riuscito a volare, ma aveva consapevolezza che qualcuno dopo di lui lo avrebbe fatto. E’ come se nel Rinascimento due grandi mani avessero preso l’età dell’oro spostandola dal passato al futuro. Creato un contenitore, tutto quello che ci finisce dentro è in qualche modo parente di una volontà.
Pensare che un’epoca possa rappresentare solo il buono o solo il bello è pura follia, è corretto dire che ogni segmento di storia finisce con l’essere rappresentato dalla tendenza dominante. Non essendo questo, un libro di storia, ma semplicemente un ripercorrere a voce alta questioni che riguardano prevalentemente il rapporto dell’uomo con il suo tempo, viene facile farsi delle domande ed azzardare delle risposte. Da quando il mondo è mondo è il punto di vista che crea l’oggetto. Il punto di vista dal quale osservare questo srotolarsi di tempo, ha come fazzoletto di terra quella che non esiterei a definire curiosità storica. Chi ha avuto modo di frequentare punti di vista diversi a riguardo di medesime questioni, conosce lo spaesamento degli occhi fermi sul quello che ti viene detto e della mente ferma su quello che ti avevano raccontato precedentemente. Insomma, tante volte il giudizio ci è stato consegnato nelle mani come una scatola da aprire, quando avremmo voluto che l’avesse aperta qualcuno per noi, dicendoci esattamente quello che vi si trovava dentro. Se può essere comodo affidarsi all’autorità altrui, di fatto questo atteggiamento limita quella capacità critica che in presenza di fatti oggettivi dovrebbe fare la differenza tra l’uomo ed un pappagallo.
La storia non è un archivio di fatti immutabili, è la capacità critica che l’uomo ha di leggere il passato. Il percorso fin qui tracciato che ha preso le mosse da una ipotetica spiaggia di un mondo molto lontano per approdare sulle rive del Rinascimento, è un percorso che segna le principali tappe del cammino dell’uomo dalla preistoria fino all’epoca moderna.
I meno avvezzi alle questioni di storia avranno fatto un sobbalzo nel leggere che 1492 è la data d’inizio della modernità. Ovviamente si tratta di una convenzione che indica in questa data l’apertura ad un mondo nuovo. Se porsi un problema è già avviarlo a soluzione, il Cinquecento con Leonardo ha posto le basi per le scoperte di cui noi oggi siamo i beneficiari. Sebbene molte questioni che non esiteremmo a chiamare di scienza sono giunte a maturazione più tardi con Galileo e Newton. All’ epoca a noi nota come Rinascimento, si può riconoscere il merito di aver affrontato in termini di impostazione molte soluzioni alle questioni che noi oggi diamo per risolte.
L’atteggiamento di un’epoca incline a ricercare soluzioni nuove, ha prodotto, attraverso il pretesto dell’arte, una qualità di ricerca non riscontrabile in altri periodi storici. Se Brunelleschi attraverso la costruzione della cupola di S. Maria del fiore ha potuto dimostrare che arte e scienza della costruzione possono offrire soluzioni che ancora oggi fanno alzare gli occhi al cielo, vuol dire che il cammino di genialità intrapreso da questi signori era quello giusto. Tanto più la validità di questi atteggiamenti regge nel tempo, tanto più si solidifica e diventa grande.
Se uno scultore come Michelangelo che mai si è definito pittore, ha potuto dipingere il giudizio universale e la volta della Sistina, vuol dire che l’eclettismo artistico ha potuto trovare in questo tempo la sua ragione di esistere in virtù dello straordinario connubio tra arte e conoscenza, tra sentire e fare, conoscendo l’oggetto del sentire. La linea di questa pubblicazione ripercorre una necessità che è quella di non tenere disgiunte arte e conoscenza della cosa. Non si tratta di tornare al passato perché quello che è stato consegnato alla storia vive comunque all’interno di ogni singolo individuo che traccia sentieri nuovi, si tratta semmai di non perdere di vista quel progetto di integrazione tra le esperienze conoscitive dell’uomo che possono fare la differenza nei confronti del pressappochismo del quale la nostra epoca è intrisa.
Vivere questo tempo senza la consapevolezza dei processi che hanno accompagnato il progresso nel quale ci troviamo, è rimanere fuori dal gioco dei “perché”.
Abbiamo a che fare con un mondo decisamente più complesso di quello che accoglieva le gesta di Lorenzo il Magnifico. Pascal diceva: “Se perdiamo di vista la scienza rischiamo di diventare stranieri del nostro tempo”. E’ in qualche modo quello che accade quando accendiamo il televisore e non sappiamo il perché quella scatola di plastica e vetro ci consente di vedere le immagini del reale. Un artista che oggi voglia partecipare al suo tempo non può dar vita a riedizioni antiquariali dell’arte, ma porsi il problema della funzione dell’arte nel mondo in cui vive. Queste complessità sono il prodotto di un allargamento dei linguaggi e della nascita di nuove discipline ontologiche che hanno dato la misura di ogni divenire, sia esso riferito al funzionamento del corpo umano che a quello dei fenomeni naturali sconosciuti all’uomo.