Incontro con Pablo Picasso
L’INCONTRO Buongiorno Pablo. Buongiorno, perché questa chiacchierata? Non c’è un perché, in realtà ce ne sono tanti. Vorrei ripercorrere con lei un po’ della sua esperienza, giù da noi. E’ vissuto tanto, ha prodotto tanto, si è sempre parlato molto di lei e così ho pensato di indagare meglio su qualche aspetto della sua vita. Indagare è un verbo che mi indispone. Cosa pensa di aggiungere al tanto che hanno scritto di me. In 90 e passa anni di vita c’è di tutto, come nella vita di tanti. Il punto è che quando sei così visibile la lama della morale è sempre pronta là a tagliuzzarti. Da morto vorrei essere lasciato in pace. Avete i miei quadri e tutto il resto, fateveli bastare. STALIN Proprio tutto no. Ad esempio il disegno di Stalin è sparito. Ah, Stalin. Sa, mi hanno attribuito una frase quando morì. Seppi che quel ritratto non era stato gradito. Si era in pieno clima di guerra fredda e qualcuno scrisse che avrei detto una roba tipo ” mi sono presentato al funerale con un mazzo di fiori che non è piaciuto.” Tutta roba che è servita per alimentare una sorta di leggenda postuma. Quel disegno era del 1949, un bozzetto fatto in occasione di un compleanno di Stalin, mi chiesero di ricordarlo con una mia opera in occasione della sua morte e io lo regalai a Louis Aragon, che ne pubblicò l’immagine sul giornale “les lettres francaises” . Un po’ di gente si offese. L’immagine di Stalin era troppo seria per essere profanata da uno schizzo che mostrava il volto grassoccio di un giovane con un paio di baffi enormi. Sembrò più una caricatura che un omaggio. Ammetterà che quel disegno non è una delle sue cose migliori. Può darsi. Sa cosa scrisse Gramsci sull’arte vero? “ Il politico non sarà mai contento dell’artista e non potrà mai esserlo”. In realtà non pensavo di fare così scandalo. Era come lo vedevo io. Certo, non proprio allineato ai canoni del realismo socialista che andavano di moda. Però la cosa non mi interessa adesso e non mi interessò allora. Se avessi voluto disegnare qualcosa di iconografico avrei rifatto un quadro in stile prima comunione. Sa quello che dipinsi quando ero ragazzino. GERNIKA Vabbè, mi dica qualcosa di più di lei. Del suo rapporto con la politica. Con il potere. Politica…diciamo meglio con il campo in cui mi hanno sempre collocato. A sinistra. Dovessi dire, ma è una sensazione, credo di essergli stato un po’ antipatico in fondo. Ricordo quando esposi Gernika a Parigi nel 1937 nel padiglione della repubblica spagnola. A parte le critiche dei nazisti, mi colpì l’indifferenza dei baschi a cui avevo proposto di regalare l’opera e le critiche di qualche mio collega che la definì una sorta di delirio, per la precisione «Come opera d’arte è una delle più scadenti mai realizzate al mondo… Sono sette metri per tre di pura pornografia, che gettano merda su Gernika». E dire che qualche maligno disse anche che era già famosa prima di essere esposta, grazie alla pubblicità che ne fecero artisti come Giacometti e Moore che le fecero visita mentre la stava dipingendo. Sì, è così. La cosa peggiore però fu la collocazione del padiglione spagnolo tra quello della Germania nazista e quello del Vaticano, che celebrava i martiri franchisti in un’opera esposta al suo ingresso. Così come che la data di inaugurazione dell’expo fu spostata a causa degli scontri avvenuti tra operai e polizia che uccisero sei manifestanti. In pratica “celebravo” l’orrore prodotto dagli uomini mentre ammazzavano gente del popolo a Parigi e in compagnia di quei carnefici che avevano sganciato le bombe sul paese basco. MASSACRO IN COREA Una storia, quello della critica alle sue opere di denuncia, che si è ripetuta anche più avanti, con il quadro che illustra un episodio della guerra tra le due Coree. Sì, dipinsi “massacro in Corea” per ricordare le vittime dell’eccidio di Sinchon. 35.000 coreani massacrati da forze di destra e cristiani coreani che si spostavano verso il sud del paese nel 1950. Chi ha indagato su quel massacro esclude che ci sia stato il coinvolgimento degli americani, anche se all’epoca quelli come me pensavano esattamente il contrario. L’ispirazione del quadro me lo ha dato Goya con il suo “3 Maggio 1808”. Lei è stato un pacifista? Se vuol sapere se la guerra per me ha sempre costituito un orrore dico di sì. In realtà a rileggere la mia vita ho avuto solo la fortuna di essere sfiorato da quelle tragedie. Ho vissuto nella Parigi occupata dai nazisti, ho subito la guerra civile senza prendervi parte in prima persona. La mia figura di militante politico da questo punto di vista ne viene fuori un po’ appannata. Diciamo che ha fatto comodo a molti, in quegli anni, assumermi come icona di quella parte di mondo che stava dall’altra parte della barricata. Sì, un uomo da celebrare e frequentare in qualche salotto di quelli buoni. Uno dei tanti circoli di cui è pieno il mondo. Posso dire che penso di lei? No. Sa, i miei parenti mi descrivono come un anaffettivo, un egocentrico, uno che guardava solo il proprio ombelico. Ho alle spalle storie di dolore, il suicidio del mio migliore amico, di mio nipote e di una compagna. Forse sarà per quello che passavo il tempo a dipingere. Il rapporto con l’umanità l’ho visto alla fine come qualcosa da mediare con una tela. Con immagini distorte e tridimensionali, ridotte all’essenza nell’uso dei colori e nel disegno delle linee. Ora a tutto questo che valore dare? Che immagine vuole che pubblichi di lei? Quella che racconta bene ciò di cui ho avuto sempre paura, la mia morte. Quell’autoritratto che feci prima di lasciarvi per sempre.
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