NOTA CRITICA VITTORIO SGARBI
LA PITTURA DI MARCO CATELLANI
Di Vittorio Sgarbi
Davanti ai dipinti di Marco Catellani come non pensare all’universo delle macchine? Eppure nella pittura di Catellani le figure testimoniano la resistenza del corpo, come se esso facesse resistenza, mentre si scompone nell’artificio. Sarebbe comunque un errore pensare alla sua pittura come a un’esperienza meccanica così come si è andata definendo nell’arte del XX secolo fino alle tendenze del graffitismo degli anni ottanta. Qui, al contrario della definizione dei flussi psicologici cara al surrealismo, che smontano la semplice rappresentazione figurale, quel che si mostra è una specie di autopoiesi meccanica. La pittura di Catellani non vuole fare a meno della tradizione, e cioè di qualcosa che ha a che fare con i valori consolidati; così come la ripetitività delle figure non è mai indizio, ma è segno di una razionalità complessa che riordina le cose, i corpi e le loro fattezze. Non si tratta di una semplice riorganizzazione di un tessuto organico, di un tipo di esistenza che sta fra il corpo umano e le macchine e che trasforma le figure a volte in segni, a volte in protoplasmi vaganti, in posa, seduti, di profilo, di diritto e di rovescio. Nelle figure di Catellani non ritroviamo le forme della rappresentazione tradizionale, ma il segno del loro transitare in altro, il lento svanire per ricomporsi in una specie di geometrismo riparatore. In sostanza, ciò che si afferma come un per-sé non umano si sviluppa in un per-l’altro. Anche le pose che Catellani fa assumere ai suoi personaggi, la loro ripetitività, sembrano obbedire a una passività monumentale, a una forma di staticità composita che le riscatta dal loro esistere semplicemente sulla tela. Ciò che si manifesta è un gioco di costruzioni, una specie di meccano, fatto di barrette metalliche perforate, viti, dadi e bulloni. In questa dimensione di trascendente ottimismo non possiamo evitare di riferirci a un artista come Fernand Léger, pittore dell’esistenza umana nella società industriale, ma anche a un pensatore come Ernst Junger, scrittore del non-umano, della modernità dominata dalla macchina e dalla guerra. E’ infatti nel meccanismo della produzione seriale che la modernità si manifesta in tutta la sua evidenza. Un altro aspetto colpisce in Catellani, ed è il suo particolare e paradossale ottimismo: si direbbe l’ottimismo della macchina, ma non è così. Julien Offray de La Mettrie, nel suo celebre libro “L’uomo macchina” (1748), scrive: “Mi si conceda soltanto che la materia organizzata è dotata di un principio motore, il quale solo la differenzia dalla materia non organizzata (si può negare qualcosa all’osservazione di più incontestabile?) e che negli animali (….) tutto dipende dalla diversità di questa organizzazione, tutto ciò è sufficiente a sciogliere l’enigma delle sostanze e dell’uomo”. Non si tratta dunque di un ottimismo verso la macchina, ma di un principio che riguarda l’organizzazione della società e che indica il vuoto, il nulla cui l’uomo è destinato. Il corpo umano, sembra indicarci la pittura di Catellani, è come un orologio. Le lancette dell’orologio vanno avanti, e anche quando quelle che segnano i secondi si fermano, quelle dei minuti continuano a girare, a scandire il tempo biologico della nostra vita. Ne vengono messaggi in cifra sulla storia umana, lanciati verso l’ignoto. Essi sono come monoliti tecnologici da decifrare, che viaggiano nello spazio siderale dell’universo per essere intercettati da una civiltà aliena o da qualche passante cosmologico che niente sa del nostro mondo.
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