LUIGI ZUCCHERI (1904-1974)
Nel 1959 – ma c’è chi dice 1969, il cinque al posto del sei sarebbe un errore – Zuccheri dipinge l’ultimo dei suoi autoritratti, dopo che era iniziata la sua malattia di cuore. È un autoritratto-sintesi, nel senso che chi abbia conosciuto il pittore soltanto attraverso le sue opere, com’è il caso dello scrivente, vi puo ’ritrovare alcuni motivi umani e culturali da intendere come la chiave più efficace per leggere tutta la sua opera. V’è anzitutto uno splendore artigianale, tecnico, di fattura che è giusto sottolineare per se stesso, pur se assume tutto il suo significato solo in rapporto al “testo” di cui diventa strumento espressivo, cioè ai temi, ai motivi, ai soggetti abituali del pittore. Ma vi è soprattutto un’autoironia che sfiora quasi la crudeltà, se si considera come il pittore dia di sè un’immagine completamente priva di abbelllimenti – la vecchiezza e la malattia si vedono nel viso, sormontato da un berretto che, nella sua consuetudine iconografica, introduce una nota di divertissement ben poco in grado, tuttavia, di attenuare la sostanziale durezza di quello specchiarsi senza infingimenti – centrata su un guardare pieno di interrogazione, rispetto a se stesso, certo, visto che si tratta di un autoritratto, ma anche rispetto all’eventuale spettatore, invitato perentoriamente a misurarsi con una condizione umana simbolica non solo di una situazione personale, ma anche di una situazione generale. Autoironia, ma non autoabbattimento: e in effetti Zuccheri non rinunciava affatto, nonostante qualche amarezza critica, a ritenersi pittore degno della massima considerazione, sicuro dei suoi risultati anche se essi, pur se apprezzati nel corso della sua vita, non ebbero l’attenzione che avrebbero potuto avere. Egli ne era consapevole, e lo diceva, anche se poi non faceva molto perchè la situazione cambiasse. Di questa sua convinzione fa fede anche il “Monumento a se stesso” che Zuccheri, tra l’amaro e il divertito, si innalza verso il 1960: una statuetta modellata in cera e fusa in bronzo di pochi centimetri in cui un omino, a gambe divaricate, sta ben piantato sopra un piedistallo sulla cui faccia anteriore sono incise queste parole: Da critica ufficiale trascurato – monumento a se stesso ha edificato – Luigi Zuccheri pittore. In effetti la questione dell’accoglienza critica di Zuccheri durante la sua vita va un po’ analizzata, perché si renda chiara l’ipotesi da cui ora si parte, nel momento in cui si tenta una valutazione complessiva di tutta la sua vasta attività, individuando per la prima vollta con completezza natura, caratteri, risultati di un pittore che si rivela di primo piano non solo nel suo “naturale” ambito veneto e friulano - dove meglio è stato presente e dove meglio è conosciuto – ma anche a più vasto livello. Sulla “singolarità” del personaggio-pittore Zuccheri tutti sono d’accordo: da Arturo Manzano ad Alfredo Mezio, da Marziano Bernardi a Garibaldo Marussi, ai molti altri che di Zuccheri hanno scritto, come Benco, Pallucchini, Vergani, Zorzi, Valeri, Scheiwiller, Tramontin, Della Corte, Zanotto, Fasolo etc. Senza passare in rassegna tutti, dirò che da un attento esame di questi scritti emergono due specie di letture di Zuccheri, una “maior" e una “minor”: nel senso che mentre nessuno discute, ovviamente, l’eccellenza tecnica, lo smaliziato amorosissimo mestiere del pittore nel suo fare e rifare senza apparente stanchezza i suoi temi più cari, c’è chi, come Manzano e Mezio, tende a spiegare questa continuità nella qualità collegandola alla psicologia di un uomo colto, attento, ma sostanzialmente legato ad un mondo finito, passato, quello del vecchio gentiluomo di campagna che accarezza continuamente nella memoria favole agresti come metafore del buon tempo antico, e sia pure con grande gentilezza, padronanza, savoir faire: ed è indubbiamente una lettura che ha numerosi sostenitori, e che trova sicuramente, in certo Zuccheri, numerose possibilità di comprovazione.
Giancarlo Pauletto
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