DI DUE AUTORITRATTI PIù UNA FOTOGRAFIA OVVERO DI UNA TRACCIA BIOGRAFICA IN FORMA DI VEROSIMIGLIANZA di Elio Bartolini
Questo giovane che emerge, frontale, da una luce opaca di interno tristemente accidioso; questo giovane dal volto fermo, ma così pallido sotto l’ala del cappello, il nastro del cappello ad imporgli come una nera benda di lutto; questo giovane che ci fissa da una sua spaurita, dimessa lontananza, non è il giovane rentier che pur potrebbe essere. Del rentier non ha la sicurezza un po’ saccente, non la tracotanza un po’ ottusa, non il piglio di chi è abituato al comando (se mai, è spaurito, si diceva...), non le guance tonde, irrorate, pasciute di chi, passati i vent’anni, già apprezza i piaceri della tavola e vi indugia. Nè del rentier ha la presentazione. Non ci arriva davanti in pantaloni a mezza coscia, il fucile dietro la schiena, il carniere a battergli gonfio e caldo sulle natiche (anche se questo giovane, magari più per conoscere che per sparargli, per imparane il verso, il piumaggio, i nascondigli, le astuzie, è probabile che a caccia vada volentieri). Ne, in più stilizzata variante a tale campagnola irruenza, ci appare tenendo tra le mani debitamente guantate, incurvandolo ad arco o ribattendolo contro gli stivali, il frustino di chi è appena sceso da cavallo (anche se questo giovane è probabile che abbia imparato a cavalcare fin da bambino). Nemmeno si è fatto ritrarre all’interno del mezzà , i libri mastri della tenuta, i partitari, gli inventari, i copialettere alle spalle, a dargli il sentimento di una continuità , di una durata. E, tanto per tagliare la testa al toro, questo non è il ritratto di un giovane retier anche per l’incovertibile ragione che è un autoritratto. E, gli autoritratti, se li fanno solo i pittori.Sì , è un pittore questo giovane. Ha persino litigato col padre per poterlo essere. Perchè il padre, e magari giustamente da un suo punto di vista, avrebbe voluto studi regolari: il liceo, e un buon liceo debitamente esclusivista come il “Morosini”di Venezia, dopo quel ginnasio un po’ qua e un po’ là , da profughi di Caporetto che si era stati. E, dopo il liceo, la laurea in Legge oppure in Agraria, anche in Veterinaria visto che il giovane ha questa passione per le bestie. In modo, domani, alle prese con fattori e gastaldi, da avere non solo il titolo, ma anche il peso e le cognizioni tecniche e le capacità ammistrative del padrone. Invece, proprio l’unico maschio, il continuatore, il successore, l’erede del nome e della sostanza... Per non dire di lei, la madre, che invece di dissuaderlo... (e noi, per non dire di una vittoria sul padre, riportata mediante la madre: cheincubatrice più sicura di traumi non poteva darsi)... È pittore dunque, il giovane di questo autoritratto. Anzi i pennelli dentro il loro bossolo, le boccette dell’acqua ragia, due tele con figure appena abbozzate alle pareti dello studiolo ci tiene a far sapere di esserlo. E si immagina che lo stia diventando come e dove si diventa pittori: frequentando le Accademie, gli studi di altri pittori detti, provvisoriamente, maestri e ritrovandosi con gli amici, aspiranti pittori, a bere, discutere litigare progettare polemizzari in posti come osterie o superstiti malvasie, visto che siamo a Venezia, in anni intorno al 1925: allora un esserci a pieno dentro l’apprendistato della pittura, un esserci con determinazione, quasi con ferocia, certo con assolutezza: un Dasein dove uno si gioca la vita, impegno e gioia, durezza e subitanei fulgori, superbie lucifierine e baratri di nera incertezza. Questo giovane dell’autoritratto invece è elegante, composto, triste anche, ma come senza risolutezza. Calza il suo cappello floscio con noncuranza, un po’ bohemienne, ma si tratta di un “borsalino”. Ci tiene a far sapere d’essere pittore, ma pennelli boccette tele e abbozzi di tele stanno in secondo piano. Poichè si è buoni, si è miti, si è educati, si è affettuosi, sembra non si abbia approfittato fino in fondo (come, ahimè , sempre si dovrebbe...) di qualche vittoria sul padre ottenuta mediante la madre. Che ci si illuda di comporla dentro un compromesso, piuttosto. Per cui si sarà un po’ pittori, un po’ agrari, un piede nel mezzà avendo alle spalle, incombenti, i libri mastri dell’azienda, uno nello studio di Milesi a Venezia o in quello di Martina a Spilimbergo, imparando da loro come si tratta un nudo, come si domina il paesaggio, facendo bene anche buoni “nudi”, buoni paesaggi, in un limpido plein-air, ma sempre in un essere pittore che non è propriamente un esserci nella pittura, un sein che non riesce mai a farsi Dasein. Perchè , trovando da mangiare anche altrove, non si è lì feroci sul panetto; non ci si fa largo sgomitando: nnon si arraffa, a costo di scomporsi fino all’indecenza; non ci si impegna ogni volta come nella suprema occasione. Non vivendo nel gruppo non si è sollecitati ad uscirne. Si indulge. Si cede gentilmente il passo. Tanto, c’è S.Vito... Ora, non è mai impunemente che uno cede il passo. E volendo essere altrove, va a finire che costui non è nemmeno lì dov’è al momento. Non aderisce.Non ingrana. Non fa suo dialetticamente. Resta in parte della sua stessa salvezza. Tanto, io sono pittore, continua a ripetersi davanti ai libri mastri del “Dare”e dell’Avere” dove, invece di badare ai contadini astutissimi, l’unica cosa che davvero affascina, sono quei colori caldi delle vecchie carte e di quelle pergamene che verrebbe una gran voglia di raschiarle per vedere, dipingendosi sopra, come rendono più prezioso il colore. Non si è pittori proprio per questo? Se non fosse che lo strappo, l’inconciliabilità , hanno finito per impossessarsi della scrittura stessa. Sono –conviene ripetere- gli anni dal ’26 al ’27 al ’28. Braque ha appena dipinto “La zuccheriera”, Morandi una delle sue “Natura Morte” o della sue “Bottiglie e fruttiera”, Sironi un suo “Paesaggio Urbano”. Non si può continuare ad essere ciechi e sordi. E il giovane di questo autoritratto non è nè cieco nè sordo. Allievo “privato”di Milesi e Martina, avverte direttamente il patetico di una pittura che s’attarda e s’accartoccia su se stessa. Ma è buono, abbiamo convenuto. Gentile. Educato. Riconoscente. Non troverà mai il coraggio di dire in faccia a quei due vecchi maestri la sua insofferenza e la sua sfiducia. Piuttosto, lo strappo riproducendosi all’interno di quello che si voleva compatto scopo di vita, si divincolerà ancora con il compromesso. Poichè ci vivono tanto picasso quanto Albert Desnard ( e Comisso e forse il miglior De Pisis), la Parigi di quegli anni è un nome che va bene per qualsiasi situazione: d’avanguardia, di accademismo, d’apprentissage, di semplice curiosità culturale. Il giovane lo sceglie. Magari se lo infila all’occhiello. Anche se non dà l’impressione di combinare molto, si direbbe che ci viva volentieri. Se non fosse che, tornando, trova tutto come prima, i problemi uno per uno, quello fondamentale specialmente. Sì , d’accordo: pittore. Ma come? I pittori dipingono: dalla mattina alla sera, ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno. E con i quadri che hanno dipinto organizzano mostre, partecipano a rassegne, vincono i premi, vanno in cattedra di Pittura (impediscono ad altri pittori di vincere premi e d’andare in cattedre di pittura). Questa continuità , questa necessaria routine (solo le anime belle possono ancora scandalizzarsene), è il tramite attraverso il quale il mestiere s’irrobustisce, si fa avvertito sulle esperienze altrui, a sua volta le influenza in un’interazione che porta dentro i movimenti (se rende meglio diciamo pure: le mode)culturali del tempo, ed è anche la condizione prima d’aggancio sul mercato: essere “visti”dalla critica, dal pubblico, dai mercanti per essere “recensiti”, “venduti”, “messi sotto contratto”. Ma il giovane pittore, dietro una generica giustificazione di scontentezza (“scontento della sua pittura giovanile”lo dichiarerà la “notizia biografica”di una monografietta d’anni dopo), si sottrae, apparendo solo in una “personale”a Trieste - città , allora, un po’ fuori di quello che si dice il giro della pittura – e solo nel 1939. Ci sarà poi, dichiarata, una insofferenza dei tempi”. A noi francamente sembra posteriore aggiustamento di tiro, mimetizzazione con causali pubbliche di un privato e schizoide essere anzichè esserci... Il secondo autoritratto – quello della maturità - non c’è , e non tanto nel senso che non sia stato dipinto, in quello piuttosto del dipinto e andato disperso. Aggiungendo subito che nel senso della verosimiglilanza, della probabilità costretta dal generico all’attendibile, della testimonianza magari più suggestiva di quella stessa oggettiva(ta), la perdita non ci sembra determinante. Di quel periodo abbiamo infatti una fotografia. Che non è un’istantanea, l’attimo strappato alla storia di un personaggio. Qui il fotografato ha cominciato con lo scegliersi l’ambiente dentro cui apparire; poi, davanti all’obiettivo si è messo in posa, cioè si è imposto in quale atteggiamento dare testimonianza di sè ; infine ha voluto questa fotografia - testimonianza a lato del frontespizio di due monografie dedicate a lui: quella di G.Marussi del 1952, l’altra di A.Mezio del 1963. Perchè quel pittore che in quindici anni di attività non trovava uscita che in una “personale”, dal 1945 in poi fa una mostra all’anno, quando non ne fa due; è presente a Biennali e a Trivenete e in altre “nazionali”e internazionali”; ha un suo mercato, una sua critica, già una sua bibliografia. Certo, ci sono ancora delle resistenze: pittore sì , ma gentiluomo di campagna (ricco, il che non guasta mai!), che allora dipinge in un suo ozio gentile e civile, per ingannare giornate altrimenti lunghette un po’ troppo. Oppure: pittore, e magari in grado di “fare la pittura che gli piace”(Mezio), ma proprio perchè ricco ababstanza da non doversi preoccupare (ancora beato lui!) della “carriera”. Oppure: pittore a pieno titolo e anche ”in carriera”, ma per subito classificarlo (degradarlo?) a pittore di genere, sottogenere degli “animalisti”. E, integrando le varie limitazioni: pittore en flanant (diciamoglielo in francese che così non si offende), che tale può essere perchè (sempre beato lui!) è un rentier , e che questa “pittura che gli piace”la fa ripetendosi non senza ironia, su via, concediamoglielo, alla lezione dei “Fioranti”e degli “Uccellanti”, roba vecchia, innocua soprattutto. Si potrebbe agevolmente dimostrare come ognuna di queste limitazioni tenga poco: la prima niente, adirittura. Per il momento è altro che ci interessa capire, ed è questo: cos’è successo tra l’ultima irrequietudine della giovinezza e l’ascendere pacato della maturita, quale lo scatto capovolgitore, il ribaltamento per cui, adesso, si riesce ad essere solamente, esclusivamente, pienamente pittori? La moglie, ci dicono: di famiglia dove l’arte è di casa, che qiundi “capisce”e, invece d’intrigare, aiuta, appartandosi discreta nel rispetto di ciò che è silenzio, raccoglimento, tensione preparatoria, ozio in apparenza. Ed effettivamente, sapendo ciò che le mogli possono quando decidono di potere... Se non fosse che il matrimonio è del 1932, mentre qui, tanto per restare alle date che d’altra parte sono pur la gabbia di ogni storia, andiamo dal ’45 in poi. La guerra, continuano: con il tanto di meditazione a cui, in mancanza d’azione o in restringimenti di rapporti o in precarietà d’ogni certezza, costringeva. Ed effettivamente, di quei tempi “in mezzo ai grandi alberi, aceri rossi, verde e viola secondo la stagione ”vicino ad un “verde canneto”, all”interno come una “metafisicheria” dello studio sanvitese, c’è larga testimonianza di meditazioni, discussioni, addirittura d’ossesioni sull’arte: “E ossesionava il pittore la ricerca della bella materia, di un sonoro brillare del colore, la durevolezza delle vernici. E le lunghe prove perfino al forno del gabinetto chimico del vecchio zuccherificio. E la ricerca e la pulitura delle antiche pergamene perchè la tempera trasparente e succosa sul vello dorato e marezzato permetteva di rendere le preziosità di colore delle penne dei suoi uccelli, della pelle dei roditori, del vellutato e del cangiante nel manto della selvaggina. Allora, lo posso dire adesso, in una prospettiva rovescia, inconsciamento ero testimone di una evoluzione nella pittura di Luigi Zuccheri”. E meglio che nel trepido affetto di Tramontin non si poteva dire. Ma la domanda resta: da dove lo scatto di questa evoluzione”, il suo imporsi su tutti gli altri impegni della giornata, anche il tempo (la “ricerca”, la “pulitura”, le “lunghe prove”) che pretende; e come mai chi prima soggiaceva sfasato remissivo schizoide, appare così impegnato, e così volentieri si impegna, mentre l’ombra del padre, tua me, genitor, tua tristis imago, intanto sbiadisce in lontananze appena elegiache, par levibus ventis volucrique simillima somno? Per tentare di congetturarlo con verisimiglianza, abbiamo solo questa fotografia. In essa, un distinto signore attorno ai cinquanta, rigorosamente in giacca e cravatta (“in tono” viene da supporre, come il fazzoletto a sporgere, un po’ demodè e debitamente compiaciuto, dal taschino della giacca), baffi lunghi sull’arco di belle labbra carnose, sbarbato con cura, con altrettanta cura i capelli pettinati all’indietro di una fronte mmolto alta dove, visibile sulla destra che è la parte più in luce del volto, una vena scende,rilevata, fino all’attaccatura della palbebra, sta mostrando, alta sul dorso della mano destra (mani belle, ben curate, consapevoli di esserlo, volentieri messe in mostra), una piccola tartaruga. Il distinto signore non fissa l’obiettivo (quindi noi, quindi il futuro). Ma sa che noi lo guardiamo (o lo guarderemo). Allora gli scappa, diciamola pure alla buona, da ridere. In un’intenzione quasi già letteraria, potremmo dire che “abbozza”un sorriso o che lo “trattiene”sulle labbra. Ma non si tratta tanto di una espressione linguistica e del suo grado quanto della qualità di un sorridere: neanche propriamente tale. Il distinto signore è in posa nè - siamo in un “interno”con necessità di luce artificiale – potrebbe essere altrimenti. Ferme restado certe necessità di inquadratura e d’illuminazione, ovvio però che il fotografo abbia suggerito di essere “naturali”, “disinvolti”, al massimo. Nulla vieta di supporre che anche l’intenzione del distinto signore fosse di apparire “naturale”, “disinvolto”al massimo dentro quello che tutto un insieme di elementi tende a qualificare come lo studio di un pittore, il suo, di lui. Fatto sta che posa più studiata non poteva darsi. Il gomito destro, quello che, puntato sul tavolo, permette di alzare la mano con la tartaruga ad altezza d’obiettivo, tende a collegarsi in diagonale con l’altro gomito sospinto in alto dalla mano sinistra puntata sul fianco. E non basta: la mano con la tartaruga, dal basso verso l’alto, insiste su un vaso cilindrico e, dal basso verso l’alto, viene ricgiamata dal costolone tra le due ante di una vetrinetta in secondo piano. E non basta: tra la direzione del busto e della testa e quella delle braccia, nella divaricazione che fa centro proprio sul cuore, si origina una croce di sant’Andrea, la coppia dei suoi movimenti opposti e laceranti, la sua X, l’incognita ancor tutta da dominare. Fuori di metafora (ma perchè fuori? Insistendo invece), se noi ci diamo a leggere questa fotografia facendo nostra la teoria della “involontarietà ”di quanto in atteggiamenti, gesti,oggetti, accadimentio può esservi rimasto impigliato contro la volontà e oltre l’intenzione e del fotografo e del fotografato, scopriremo una serie di elementi, uno più inquietante dell’altro. La didascalia di accompagnamento ci dice che siamo nello studio di un pittore. E infatti, del pittore, in primo piano (veramente, nell’autoritratto giovanile erano in secondo...), ci sono i bussolotti con i pennelli e le pennellesse, le ciottole dei colori, le boccettine d’acqua ragia, le altre d’inchiostro di China, i gessetti, i carboncini, le matite, le colle, le gomme, i pezzettini di mollica di pane...Ma lui, il distinto signore, ben si guarda da ogni teatralità del mestiere: che so, la tavolozza infilata al pollice della sinistra, il cavalletto in vista dietro la schiena, il camiciotto da studio debitamente sporco. No , no: lui è in giacca e cravatta, sbarbato e pettinato, calmo (?), tranquillo (?), sorridente (?) che se non fosse per quel po’ di confusione di pennelli e boccette in primo piano... E poi la posa! Non fissare l’obiettivo sapendo di non fissarlo! Perchè questo è un signore abituato fin da bambino a farsi fotografare, e lui, l’obiettivo, mmica lo affronta da spititato come i coscritti e i novizzi delle classi popolari che, per farsi la fotografia, hanno quell’occasione e basta. Lui, lo evita, se così più gli aggrada. Se ne divincola. Salva baracca e burattini con quel sorridere “abbozzato” che è come in una circolazione tra i lineamenti azichè nella sua sede deputata: la bocca. Gli occhi. E poi quell’apparire proprio con una tartaruga in mano! Che, pazienza nell’orto di casa: verrebbe, anzi, ad essere “naturale”. Ma qui, in un interno!, qui, in uno studio! Per caso, lui, il pittore, che ormai sappiampo essere, vuol dirsi contento di quella qualifica di “bestiante”e di “animalista”che gli vanno rifilando? O, in più maliziosa significazione, quella tartaruga in un interno e in primo piano sta a predicare di un rovesciamento totale per cui il ricco si è fatto povero, il mite aggressivo, il timido provocatore, ed è ”normale”che un grillo punga, che una seppia stufa di nuvole di inchiostro si dia a schizzare più corrosivi veleni, e che un grappolo d’uva s’accampi più grande dei due uomini che lo portano in spalle? La terza testimonianza di “visibilità biografica”, l’autoritratto della vecchiaia, comincia con un problema di date: secondo quella apposta sotto la firma, ed è esempio rarissimo, l’autoritratto sarebbe del 1959; secondo testimonianze familiari, si collocherebbe dopo il ’62; secondo altre, sarebbe preferibile datarlo attorno al 1970, dopo i più gravi attacchi di cuore. Non è questione inutile: l’autoritratto, la sua densa giallastra spagnolesca tonalità ( ma non cupa, come un ater che non è niger) segnano uno stacco pauroso rispetto alla compattezza ancora energica dell’immagine fotografica del ’50, si vorrebbe capire entro quale giro d’anni questa decadenza sia andata consumandosi, le ragioni di una simile accelerazione negativa, quasi un furto sul proprio tempo. Poi basta fissarlo questo quadro, cedere alla sua forza dissacrante ed ironica, per vergognarsi di uno zelo – il “giro d’anni”, le date da “stabilire”- vagamente becchinesco. C’è questo quadro. E chi vi è dentro, soggetto-oggetto, non ha un filo di ritegno nel denunciare ciò che in lui, ancor prima che nell’immagine da darne, è una senilità (solitaria, turpe, maledetta) più che una vecchiaia (serena, rispettata, vezzeggiata dagli affetti, elogiata di consensi). è come se fosse saltato il velo impalpabile, ma resistentissimo, delle convenienze per cui (dall’infanzia!) certe cose si possono dire, altre no, altre è meglio alluderle, e, tra quelle alludibili, alcune è meglio sottointenderle perchè , tanto, si capiscono lo stesso. Ad un certo punto lui, il Vecchio, si è stufato di convenienze, di riguardi, di buone maniere, di nitori, di preterizioni, di paralessi...E prima d’arrendersi (a che ormai se non alla morte?), ha avuto un estro: questo autoritratto. Dove il cappello giovanile è sostituito da una molle, come lumachesca papalina; il corpo s’indovina avvolto in una veste da camera guarnita di pelliccia (quanto resta di tutta la ricchezza che aveva permesso di “fare la pittura che gli piace?”); ne esce un collo pesante, sfatto più che pingue. I capelli un tempo “lunghi e ben pettinati”si sono ridotti a cernecchi grigiastri che sfuggono da sotto la papalina. I baffi, già ”tesi sull’arco di belle labbra carnose”, ora sono soltanto l’accentuazione di una smorfia “che sfiora quasi la crudeltà ”(Pauletto). Più che di crudeltà , forse converrebbe parlare del sollievo di chi, finalmente, s’è potuto mettere di fronte al mondo: non per giudicarlo, oh no!, nè per confortarlo o esorcizzarlo. Per goderne (ormai!) meno ancora. Per fissarlo piuttosto, come sempre si avrebbe voluto nel proprio mestiere di pittore. Il quale è un individuo che, perdendo tutto il tempo sacrosantemente necessario, sta lì sulle cose, le contempla, anche le accarezza, intanto le indaga, magari le aggira sì che, da fisiche, gli divengano metafisiche... E tutto questo lui può farlo (finalmente!) da un punto in cui non arrivano divieti, non rimproveri, non recriminazioni, non acrimonie. Lui è vecchio, stanco, malato: nessuno, si spera, nemmeno quella lontanissima ombra, tua me, genitor, tua tristis imago, vorrà permettersi di rimproverarlo se, per esempio, dipinge... ELIO BARTOLINI
ELIO BARTOLINI
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