"Tra cielo e volto" letto da Francesco M. T. Tarantino
Scrive, Luciano: “Ho amici tra i cirri / uccelli / dalle
larghe vedute. / Proprio oggi / uno di loro / m’ha detto /
che nel cielo / è più facile perdersi.” Soltanto un abitatore
del cielo può confidarsi con chi il cielo conosce, perché
solo costui può intendere il Verbo degli uccelli, il
linguaggio delle nuvole, e abbracciare con lo sguardo le stesse larghe vedute,
e guardando l’immensità di questo infinito cielo che è sintesi di volti e
volteggi, di aria rasserenante e vibrazione di spazi, di cammini e direzioni
controvento, il poeta si smarrisce ma, nella consapevolezza che è più facile
perdersi, si siede raggomitolato “alla destra di un fiume ancestrale,” dove
nulla sfugge anzi può notare “tutto, monete e nocchieri ma soprattutto se
stesso // con l’osso smezzato / e il soffio cifrato.” Sono versi di Luciano Nota
che incantano e pongono alla riflessione un punto d’osservazione diverso
dall’assetto normale della quotidianità, ma in un continuo divenire dove
l’occhio, spostandosi, coglie lo scorrere del tempo nei suoi larghi giri e in
diverse intersezioni del reale vissuto in astrazione, ma pregno d’interferenze
stranianti di un terzo occhio che riesce ad osservare un ampio spettro
cogliendo linguaggi e sensazioni impossibili da percepire altrove.
Se “Per molti la luce si curva / al declino del sole” per Luciano non è così,
lui ha la capacità di penetrare il buio ed essere lui stesso luce, al punto da
illuminare il suo vissuto in ogni categoria o anfratto dell’anima che gli si
annida dentro, scandagliandola in ogni piega, sia che faccia male, sia che
risulti rimarginata; infatti lui stesso scrive: “Io ho una lampada accesa / in
una sala velenosa / e a differenza di tanti / riesco a guardare / se essa mi
acceca.” Una lucidità sorprendente che fa di Nota un poeta della
consapevolezza: la consapevolezza di vivere con intensità ogni valenza che lo
immerge dentro un’esistenza di chiaroscuri e di alternanze di ricordi e a volte
di nostalgie benefiche o spiazzanti, ma tutto riconducibile ad un
attraversamento che non si ferma alla memoria ma oltrepassa il brivido della
ricomposizione dei luoghi dove si è vissuti o dove si vive. “Fu quella volta /
a prua di una barca / che fiutai ferro / e pece infocata. / E divulgai al mare /
l’aroma della spada / e della strada.” Sono sintesi che l’autore propone
innanzi tutto a se stesso e poi al lettore mediante immagini di ingorghi
esistenziali che denotano, sì, una nobiltà d’animo ma anche il travaglio intimo
di un cuore capace di alimentarsi di ogni sfumatura della vita: “Avevamo
vent’anni / e la voglia era tanta / d’ignorare le insidie dell’aria. / Sapevamo
che dopo anni / ci saremmo ritrovati / piegati sugli arcioni / a lanciare i
nostri palpiti agli aironi.” Quel che colpisce nei versi dell’autore è il
linguaggio usato con disinvoltura senza tema di incongruenze tra espressioni
ardite e immagini inappropriate a volte imperscrutabili ma sintatticamente
corrette. Luciano conosce la poesia e il suo poetare suscita emozioni che
spostano la prospettiva e rendono inafferrabile l’intorno: “So bene / che il più
lieto risveglio / sarà tuono / di un loculo amante.” In versi come questi c’è
tutto il percorso di un andirivieni di memorie e di strade camminate in ogni
direzione e in qualunque atmosfera, il poeta introita il passaggio di ogni cosa,
di vibrazioni e sensazioni da restituire nella pagina riscritta, forse cento volte,
ma definita quando diventa il suo specchio e la sua narrazione; come “una
sacca essenziale che lo chiama per nome, lo porta con sé / sui prosceni del
mondo.” Si respira nell’opera un intreccio di rimandi tra i luoghi dell’anima e dello
spirito immersi nei siti adolescenziali, e il puro sentire che quegli stessi luoghi
hanno informato il pensiero narrante dell’autore il quale ne ha, a mio avviso,
consapevolezza piena, soprattutto quando riattraversa il ricordo commosso
delle sue genti che continuano a vivere nella sua memoria, facendone
memoria in una dinamica relazionale tra l’individualità e la specificità di un
volto che assurge al cielo divenendo immagine universale e trascendente che,
pur mantenendo i tratti particolari, si evolve in un’essenza che ricompone la
vita in armonia col vissuto: “Impronte millenarie / della sabbia. / Per averci
tra cielo e volto / compagno d’aria / così sacro al mio collo.”
Non basta scorrerlo, questo libro di Nota, ma leggerlo con trasporto,
accompagnandosi alle parole, interiorizzandole e cogliendone le immagini
che vengono suscitate, perché rappresentano la sintesi di un percorso poetico
dove ogni frammento sussiste da sé pur immagazzinando l’itinerario di
scomposizioni e deragliamenti la cui meta è sempre più vicina e l’approdo
sempre più sicuro: “Devo giungere al greto / prima delle api. / C’è un fiore
che mi aspetta.” Non si stanca l’autore di cercare, di osservare, di
scandagliare fino a ribaltare il senso della prospettiva in un coagulo di respiri,
di sospiri, di palpiti, di domande, di risposte spesso non conseguite, ma a cui
Luciano non si sottrae, anzi, avanza col suo volto verso quel cielo sotto il
quale continua a svolgere la sua narrazione poetica: “Ho preferito il prato
allo scoglio. / Ho pensato che è più dolce guardarti.”
Di poesia in poesia cresce il coinvolgimento del lettore con la forza espressiva
dell’autore al quale gli si riconosce la capacità di toccare le corde dell’anima
in un processo di redenzione e transustanziazione delle tensioni che si
annidano nel quotidiano ingorgo della vita: “Ho paura d’impazzire / in un
gas di desideri. / Non cercarmi nel ricamo / dei pensieri. / Dammi il bacio
favoloso / mentre leggo / il capoverso dei poeti.” C’è in questa raccolta di
poesie di Luciano Nota un tessuto di varia umanità con nomi e cognomi o
semplicemente appellativi con i quali l’autore interloquisce in una danza
senza passo: “Non sei bulbo / non sei pianta / non sei spina. / Sei siepe
vibrante / fatta di accordi.” E ancora: “Vedo mio figlio passare. / È un sogno
/ un progetto un po’ strano.” Un nome e un cognome, quello di un amico:
“Stringendomi con passione la mano / posandomi in tasca una biro / mi
disse: «con questa, almeno in una, / riporta il mio nome».” Non mancano in
un tessuto di vita le cose che fanno da sfondo alla nostra esistenza e il poeta si
rivolge anche agli alberi, che sia un acero, un olmo, un arbusto, e
ammirandone la potenza sa dire loro: “Per un attimo / e un attimo ancora /
voglio assistere alla danza / del tuo brivido in fiore. / Per una volta / una
volta soltanto / veleggiare con te / sull’arca dei venti.” Oppure “Non sarà
mai secco / questo varco a triangolo / che flette le fronde / al passaggio del
sole. / Non sarà mai arma / questa foglia pungente / che s’inchina alla
terra.”.
Oltre alle cose, nel cuore di Luciano, ci sono i ricordi, le atmosfere dal sapore
antico, c’è la sua mamma, una presenza mai ingombrante che pur
nell’impresenza gli respira accanto, ed è talmente vivo il dialogo tra i due al
punto da non capire dove sia l’assenza: “Parlo con te da solo. // Oso
mangiare / uno spicchio di pera / misto a mollica. // Madre dammi una
mano / a rasciugare dagli occhi la pioggia / un filo di foglia tra noi / almeno
oggi.” Non parla al passato il poeta, visto che la madre gli siede accanto, e lui
l’accoppia ad ogni altra creatura con la disinvoltura di un figlio quando gioca
sotto lo sguardo vigile della sua mamma: “Mia madre ha il volto bianco / di
quel passero alla finestra.” Come tutte le mamme lucane che vivono il
distacco dai figli lontani: “Sono loro le anziane lucane / abili querce che
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