Michele Rossitti legge "Sopra la terra nera" e "Tra cielo e volto"
Nella realtà dove l’uomo opera capita sempre il frangente opportuno, l’istante adatto alle necessità impellenti per ogni agire e sentire. Il vivere è avvalorato dalla semplificazione delle azioni più comuni e dei loro contrari, a cui ciascun vivente è soggetto durante la sua lunga o breve esistenza. Agli atteggiamenti o sentimenti opposti nessuno può sottrarsi. “Ogni cosa ha il suo momento e ogni atto la sua ora sotto il cielo: tempo di nascere e tempo di morire; tempo di piantare e tempo di sradicare ciò che è piantato; tempo di uccidere e tempo di guarire (…)” ammonisce il Qhoélet all’apertura del capitolo terzo.
Il linguaggio poetico di Luciano Nota ha raggiunto questa affinità espressiva attraverso una consapevolezza matura della precarietà che allaccia vita e poesia, mosso dallo spirito ineludibile di mostrare un’analisi autobiografica mediante il processo di introversione. Capace di espellere l’esperienza individuale al di fuori delle pareti cronologiche la rende metaforica e assoluta, in senso universale. Sopra la terra nera e Tra cielo e volto non sono semplici raccolte ma veri e propri diari presenti di un’assenza giustificata.
I singoli componimenti sbucciano sì le inquietudini di forma ma la angosciano con adesione alle mutazioni del cuore, ripescano nello scrivere una matrice di testimonianza diretta e contenuto morale.
I versi affidano all’esperienza una direzione che la trascende e regalano la sua spoliazione come faro acceso in un frammento di evento senza cadere nella discorsività. E’ rimasto un adulto partecipe dei suoi trascorsi senza assumere quella distanza da scopofilo incollato al buco della serratura, corsia preferenziale adottata durante le scontate adtestatio rei visae di molti contemporanei.
Uno spasimo riconoscente quindi recupera la figura dell’homo viator, ebreo della diaspora che accorda la voce esclusiva alle corde di uno strumento, sempre in balìa del lamento di pena tipico dei senza patria, costretti a mantenere salda un’antica alleanza. E’ più di una discesa nel vortice caro a Le bateau ivre, piuttosto una confluenza di approdo al grembo di una madre, un viaggio di ritorno all’utero con convergenza centripeta dallo scoramento verso la ricostituzione dell’unità.
Oltre l’allusione nascosta a Les stupra di Rimbaud e l’anabasi alle origini della parola del Parnasse Contemporain pronte a scoperchiare diversi riferimenti, il buio dell’anima colleziona una summa di temi che richiamano, nella loro complessità, al desiderio di risillabare una migrazione costante verso il vincolo crudele del cordone ombelicale e a concludersi però con la rottura delle acque e il parto.
In tale direzione, maggiormente appropriato sembra il riferimento alla tradizione del mito di Teseo.
L’eroe, nato forse dall’unione segreta di Etra e Poseidone, ma figlio di Egeo, compiuti i sedici anni su delazione della madre e per volere del padre recatosi anni prima ad Atene, solleva il macigno dove erano stati riposti la spada e i sandali e si dirige nella capitale per farsi riconoscere dal genitore, divenuto nel frattempo sposo di Medea. Nel corso del banchetto, sfoderata da Teseo la spada per tagliare le carni, Egeo riconosciuta l’arma e la paternità, manda all’aria la coppa avvelenata dalla moglie che aveva nutrito forti sospetti riguardo l’identità dell’ospite.
L’itinerario epico estratto dalla ricerca dell’eredità genitoriale è l’excursus che Luciano Nota utilizza per ripercorrere le tappe di un ricordo circostanziato. Con una sporadica struttura di causa effetto raggiunge il rimescolarsi del torbido della vita umana che ispeziona il sapere interiore e riduce l’ossessione drammatica dell’autore agli antipodi tra singolo ed esistenza. L’adozione del verso libero così spiega il carattere iconico per mezzo degli a capo in un ritmo essenziale: connettere il tessuto delle immagini in un più ampio contesto narrativo di riferimenti sintattici che assorbono la poesia in un superiore oceano ritmico.
I naufraghi superstiti, a livello di tagli linguistici, vengono tratti in salvo e isolati in una quarantena che rallenta a tratti la rivelazione del mistero. L’espressività derivata scaturisce l’urlo del travaglio assiduo, gridato in faccia al lettore. Quando la sofferenza parla con la bocca di una vitalità disperata stana lo sgomento che corre sulle pagine per interi versi. Allora la commozione profonda costringe il poeta a un procedere calmo della contemplazione interiore e a un lento centellinare della straziante confessione.
Rilevare quanto la ragione emargina non diviene soltanto un dato precursore del suo impiego ma l’intento che il poeta deve far riaffiorare nelle strofe finali, dove vive l’inversione dei valori per cui la morte è meta desiderabile che si paga con il vivere. Conquistare la verità sia nello spirito sia nella carne è anche la liberazione dall’olocausto delle sette ragazze e altrettanti giovani maschi culminante con l’uccisione del Minotauro, eccellenza del feticismo monarchico, sconfitto a favore di un’autonomia comunicativa che concede al pensiero di manifestare la libera opinione. Il cenno a Teseo vuole levare alle convenzioni dei due paradigmi apparentemente inconciliabili e alla loro presunta lotta fratricida, l’insicurezza di ritrovarsela davanti nelle opere qui prese in esame. Al consueto conflitto di dubbi e preoccupazioni si alterna una sofferente attenzione sul clan domestico e non, quasi volesse ricostruire all’esterno di sé un’umanità provvisoria: raschiare il fondo di una provata miseria e schiodare una tempra di residui cristiani per riconvertirli nel lume di carità che ricopre persone e situazioni, e più ancora rende vivi i defunti: “Parlo con te da solo. / Tutto è più ombroso/dal guscio all’interno del pane. / Oso mangiare/uno spicchio di pera/misto a mollica. / Tutto è più grande/più intenso. / Non riesco a vederti lassù/ non riesco! / Potrei provare a spazzare le nubi/ aprire un varco nell’astro/ ma so che qualcuno lo ha fatto/ senza alcun risultato. / Madre dammi una mano/ a riasciugare dagli occhi la pioggia/ un filo di foglia tra noi/almeno oggi.” (25 AGOSTO).
Teseo, dunque, si offre vittima sacrificale per attuare il piano di eliminazione del mostro e ci riesce grazie al contributo di Arianna che con il celebre artifizio gli permette di evadere dal palazzo delle bipenne e rivedere il sole.
Luciano Nota stretto quel filo in pugno percorre incolume il corridoio mentre la sua esclusione da militanze letterarie la fa coincidere alla dissociazione esteriore: “Riesco ad aprire la porta/Solamente se qualcuno/S’ improvvisa superbo/ E il dolce ticchettio mi riporta/Alle piume di un incendio. /E così è per le finestre/I poggioli, le pareti. / Troppo lungo è lo spago/ Che mi separa dal bacio.” (LO SPAGO).
L’omosessualità, fragile e insidiata dai forti attacchi nell’habitat socioculturale in cui coesiste, viene dichiarata senza morsi di castrazione: “Dobbiamo sfare ora/ gli schermi allo specchio/vederci alla maniera/ di due probi barboni./ Abbiamo intriso gli ormoni/ in lavabi assai lustri/ troppe volte soffocati/ da stridi in giuntura./ E’ ora che il tuo riso/si mescoli al mio/ ti dia il mio solco/carminio di fuoco./ Puoi certo annoverarmi/ tra i folli ordinati./ Posso io seguitare/a pensarti/a cercarti/ ad amarti?” (ORA).
Lancette di orologio e incrinature vincono il pregiudizio ingessato nel canto della perdizione assoluta o dell’autodenigrazione all’arsenico, in un soffio di reclusione dannata tuttavia piena di grazia: “Torno a te/Perché preso dallo schianto/ Ed emergo distaccato/Dai fumi della morte. /Tu che continui a strizzarmi/A infilzarmi/Quasi fossi un aculeo divino.” (TORNO A TE).
Le sillogi vanno considerate nella completezza precaria del memento, epica nel trattare le figure della disintegrazione fisica e disperata quando si alza la barricata ante mortem della chimica dissolutiva su quanto lui stesso ha innescato. Violando l’allegoria della salma solo tombale, la scruta a partire dall’ostaggio scheletrico: “Inizio a credere che la gabbia/ sia una nana gialla/dove l’occhio si placa. / Così non vedo più/ né la notte né la polvere. / Al mattino un sole ardente/ vezzeggia la fronte. / Il caldo mi prende. / Le labbra frementi/le guance frementi/le ciglia frementi. / Il volto riacceso/riassetta la mente. / Vado allo specchio. /Pietà di un calido teschio.” (LA GABBIA).
Il dettato di Luciano Nota non impiega le presenze umane o degli oggetti come microfoni di epifanie bensì come separazione continua dal vissuto: “Sfatto ciò che c’era da sfare/Accomodati i comodini/ Gli angoli, le scale./Posati gli accendini in verticale./ Stirate per bene le camicie/I neuroni, le avvisaglie./ Messe a bagno le ultime incertezze./Accesa la luce…/D’improvviso tutto si smuove:/ Gli sfatti, gli accendini, le camicie/ Gli angoli,/le scale,/ i comodini./ Financo i cecchini/ Che prima non c’erano.” (CECCHINI).
E’ concesso avvicinare questi congedi che si rincorrono inesorabili e la coscienza del protagonista rimasta abbandonata a orchestrare le battute di una conversazione mentale con smarrimento dell’interlocutore alla Sinfonia nr. 103 di Haydn: “Mi sono affacciato alla finestra/Per meglio scorgere il dolore. / C’erano tutti:/ Il padre, la madre, il figlio/E una vecchina labile, stanca/ Che mondava una mela fradicia.” (IL DOLORE).
Gli affetti sepolti e loro minuetto non risarciscono se considerati nelle veci di reliquie secolarizzate per riconoscere le sotto-parti al ritorno del tema iniziale, ripetuto di seguito. La dipartita dei propri cari obbliga l’io lirico a coagulare “a rullo di timpano” le sagome e registrare sul nastro interiore le tracce scomparse: “Vedo ombre sui sepolcri/Mio padre/Mia madre/ Sgusciati/Come anguille. / Dai morti.” (SUI SEPOLCRI).
Se la maturità di Luciano Nota è arrivata a esplorare il muro di Caproni nel suolo che distanzia e congiunge, la sua iniezione dona un significato al nulla tramite un dna latente anteriore e scheda la combinazione in singole procedure su tutti gli strati visibili che ne promanano: “Per un attimo/ e un attimo ancora/voglio assistere alla danza/ del tuo brivido in fiore./ Per una volta/una volta soltanto/ veleggiare con te/ sull’arca dei venti./ Diventare io fronda/ feconda chimera/ sradicata dai sensi.” (A UN ACERO).
Occorre riuscire a confondere e sopportare con la stessa rinuncia, la medesima energia e quiete le ossessioni del nostro corpo, del cervello ma pure della sostanza, verso l’oggetto che non vuole solo esistere ma diventarci identico per coincidere con quello spettro, cioè l’alter ego precedente il marmo delle lapidi.
Michele Rossitti
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