Giuliana Benedetto legge "Tra cielo e volto" di Luciano Nota
su Patria Letteratura
“Sono Adamo.
Non ho ombra che mi veli.
Non t’intralci la mia naturalezza.
Accomodati.”
La “porta d’accesso” alla silloge “Tra cielo e volto” di Luciano Nota è costituita da questi versi che rappresentano un’introduzione condensata, un patto con il lettore o meglio una rassicurazione sul fatto che ciò che leggerà è espressione sincera e priva di sofisticazioni dei moti dell’animo del poeta.
In effetti l’autore ci porge senza filtri il suo sguardo sul mondo, ci invita a leggere nei suo pensieri, nei suoi desideri e nelle sue percezioni.
Attraverso l’ossimorica alternanza stilistica di concreto e astratto (“Dalle perle che cadono dal cielo/ pongo d’istinto le atmosfere./Non ho voglia di capire/se un raggio o corona/è riverbero arguto./Ciò che mi preme è in un campo sperduto./Punto dritto al maldestro/all’inetto al resto), di sensorialità ed evanescenza, si passa dalla più pura introspezione (“Per molti la luce si curva/al declino del sole./ Io ho una lampada accesa/in un sala venosa /e a differenza di tanti riesco a guardare/se essa m’acceca./Forse riesco a legare/incisi e illusioni./Sicuramente i colori”) alla ricerca spirituale che diventa quasi preghiera (Signore, sei o non sei/la missiva di sempre/la mia urna postale/fatta di niente”), dell’esternazione delle speranze per il futuro ad un canto alla vita (“La tengo immortale/poco distante/dalla tomba di mare/che potrebbe inghiottirla/È una sacca essenziale./Mi chiama per nome. Mi porta con sé/sui prosceni del mondo./ Da attenta signora/mi offre con tatto/arnesi e stivali./Sa bene che il tacco/è uno squillo ad incastro/Non sa che il ventaglio/è una scatola chiusa).
Tanto intrisa della personalità e dell’essere del poeta è quest’opera ed imprescindibile è il ritorno alle proprie radici, l’evocazione emozionata ed emozionante, vibrante, ma al tempo stessa impregnata di malinconica nostalgia di affetti e luoghi amati.
“Al mio paese” è proprio dedicata al piccolo borgo natio:
“Non crollerò
Né crollerà il puledro
Lungi il viale dei carrubi.
Ho nel fianco il basilico
Col quale insceno pasti
Di orologi migliori.
Il mio nido è ancora lì.
Con me ho portato l’orto che acconcio ogni giorno.
Di sera aggiungo il fimo
Il mosto nel bicchiere.
Il fungo gioca a carte
Con le giacche di mio padre”.
Come tralasciare poi un componimento che ritrae con la forza immaginifica di un dipinto (immagine familiare a chiunque viva in quei posti) le anziane lucane.
“Le puoi ancora incontrare
Con bluse rammendate e scialli neri
poggiate agli usci delle case.
Col santine del grembiale
Parlano ligie dei figli lontani
Limano con cura i grani dei rosari.
Sono loro le anziane lucane
Abili querce che sfuggono o tempi.
Con gli occhi dipinti d’antico
E la tremola mano
Sembrano tutte mia madre”.
Infine non poteva mancare un ricordo dolce amorevole della madre in “25 agosto”, componimento nel quale la mente sembra andare ad un passato che ha un sapore ormai diverso da quello del presente.
“Parlo con te da solo.
Tutto è più ombroso
Dal guscio all’interno del pane.
Oso mangiare
Uno spicchio di pera
Misto a mollica.
Tutto è più grande
Più intenso.
Non riesco a vederti lassù
Non riesco!
Potrei provare a spazzare le nubi
Aprire un varco nell’astro
Ma so che qualcuno lo ha fatto senza alcun risultato.
Madre dammi una mano
A rasciugare dagli occhi la pioggia
Un filo di foglia tra noi
Almeno oggi”.
E infine la porta che Nota aveva aperto lasciandoci entrare nel suo mondo si chiude, chiusura in realtà apparente, con la richiesta di ulteriore tempo e spazio per cercare se stesso, ovviamente per poterlo poi comunicare attraverso l’arte poetica.
“Lasciatemi, lasciatemi solo.
Cerco nel mio regno
Un cunicolo di cielo”.
A conclusione di questa recensione riporto alcune poesie non ancora pubblicate dello stesso autore.
Le cose viste dalle crepe
Le cose viste dalle crepe
sono enormemente più belle.
Le scorgo diverse, libere da impegni.
Non hanno peso, ma riposo.
Stanno sopra il capomastro.
Mai voltarsi, mai centrarle.
Sono stive
e per questo assai più vive.
Per farmi sentire
Per farmi sentire
per farmi guarire
ho venduto tutto di me.
Perdo dunque ore d’ansia,
il permesso d’essere me stesso:
un chiodo, una fuga
la solitudine riuscita perfettamente.
Quasi sorriso
C’è parte di noi
un di più che non oso spiegarti
in quel mucchio di panni distorti.
Dici, è meglio star zitti
alzarci e far finta di niente.
È questo che vuoi veramente?
Se il sole non batte sul vetro
figurati se picchia sul bordo!
Ma il livido allarga la schiena
sradica e pianta le foglie.
È viso, quasi sorriso
quel grido che pressa la fronte.
Il ciliegio
Prima l’annuncio, poi il canto
poi forse la danza.
Ma cos’è che manca
in questo mezzogiorno
in questo notturno solare
dove neanche il male fa male
dove il bene si desta
per diventare fiaccola
lamina appena.
Non sa di fiaba questo luogo
non si coglie con la mente.
Manca forse il serpe
il siero, il melo.
O forse manca il ciliegio.
I miei amici
I miei amici sono fatti di ferro
mi truccano, mi fanno sentire
passato.
Hanno la grassa vanità
del grembiule.
È falso se mi chiedono
come stai , e mi mandano
un bacio.
I miei amici si muovono tra massi
e parrucchieri
Non chiedono mai dei prati
mai degli alberi.
Hanno troppo da fare
da pensare.
Mi cercano la notte
quando dormo per ascoltarli.
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