IL GIORNALE METROPOLITANO
Arte come strumento di ricerca, incontro con Margherita Levo Rosenberg
Nei giorni scorsi ci è capitato di entrare nel mondo creativo dell’artista piemontese Margherita Levo Rosenberg, trovandoci di fronte ad una moltitudine di varianti artistiche che illuminano la mente e il corpo. Formatasi nel campo della psichiatria ha ben presto ritrovato nell’arte il suo percorso di ricerca fatto di materia e colori, di riflessione e ricerca continua, capovolgendo il mondo e creando simposi culturali tra diverse realtà. Negli anni Novanta fonda a Genova il gruppo Pandeia ed entra a far parte dell’Istituto per le Forme e le Materie Inconsapevoli, Museattivo Claudio Costa, associazione di volontariato culturale sui temi della relazione tra arte e psicologia. Ha partecipato a mostre nazionali ed internazionali ed è inserita in varie pubblicazioni d’arte e culturali. Attualmente vive e lavora tra Ponti (Alessandria), Genova e Tel Aviv. Leabbiamo posto alcune domande.
-Margherita, come ha scoperto la sua propensione alla creatività.
“La creatività è una funzione della mente che si esprime in tutti gli ambiti delle attività umane. Trova maggior validazione sociale nelle arti e nelle scienze ma è una componente fondamentale per la sopravvivenza stessa del genere umano. L’arte risponde, prima di ogni altra cosa, ad un bisogno di rimanere interi e quindi, in ultima analisi, di sopravvivere. La scoperta della mia propensione all’arte è avvenuta molto presto, da bambina, quando, vivendo in campagna, ho cominciato ad utilizzare la terra, i rami e le pietre come materiali da costruzione per le mie fantasie, le ampie foglie dei noci, unite insieme da piccoli bastoncini a comporre tessuti per i miei abiti principeschi. E’ così che un intreccio di ciliegie, dopo aver svolto la sua funzione di collana regale, diventava, a malincuore, una merenda soddisfacente. La mia prima scultura – una testa di regina scolpita nel tufo, con un chiodo di ferro – l’ho venduta a un amico di famiglia per un cinquecento lire d’argento con i cavalli. Era una moneta affascinate che non avrei mai voluto spendere ma conservare gelosamente; credo che questo scambio abbia lasciato un segno profondo dentro di me, l’idea della preziosità intrinseca della mia propensione a creare. Non ho mai pensato al fare arte come a un percorso professionale ma a qualcosa di intimo, da proteggere. Da un lato la vita reale con le sue implicazioni relazionali, di studio e di lavoro, dall’altro la mia arte, espressione di un dialogo segreto con me stessa. Momenti preziosi di superamento della sensazione di profondo scollamento tra il consueto raccontarsi della vita e la verità. Una sensazione che mi ha accompagnata per tutta la vita, fin da bambina. Ricordo l’abitudine reiterata, durante il ginnasio, di scrivere in lettere greche il nome di alcune regioni francesi – esattamente l’Armor Arcoat – nel tentativo di trovare un nesso, linguistico, culturale, reale… tra le pile di vocabolari di greco e latino, i ragazzi fatti di eroina alla stazione e i miei campi di grano pieni di papaveri. L’arte è stata la mia risposta al bisogno d’interezza – e ha rimarginato, ogni giorno, un po’ delle ferite che la vita ha provveduto a riaprire“.
-La sua è una vita piena di tante esperienze, quanto sono state importanti nel suo percorso artistico.
“Penso che la poetica di ogni artista si nutra quotidianamente delle sue esperienze di vita. Entrando più nello specifico alcuni eventi della mia vita hanno certamente avuto più importanza di altri. Io sono nata in campagna, da una famiglia di contadini ed ho trascorso l’infanzia in mezzo ai campi, tra cielo e terra, a contatto con un’esistenza fatta della durezza del quotidiano e dell’insicurezza della precarietà. D’inverno disegnavo sul tavolo della cucina mentre mia madre sfaccendava, mi faceva partecipe dei suoi sogni, parlandomi in dialetto piemontese per non trasmettermi il suo italiano imperfetto. Di quegli anni ricordo la fatica nel suo sguardo, le lacrime d’agosto sotto la grandine che in un attimo vanificava il lavoro di un anno intero e un grave incidente agricolo di mio padre che lo lasciò fortunatamente in vita ma cambiò la nostra esistenza per sempre. La mia fantasia ricorrente da bambina era quella di volare oltre le colline. L’impatto con la lingua italiana, nei primi giorni di scuola, per me non fu drammatico ma per il mio compagno di banco, che non riuscì a chiedere per tempo di andare in bagno, segnò un ricordo di quelli che non si cancellano più. In seguito, durante gli anni dell’università ho incontrato l’uomo che poi è diventato mio marito; un soldato israeliano con un bagaglio di cultura e di esperienza molto diversa da quella di un suo coetaneo italiano; una relazione che ha aggiunto al mio mondo molti dei tasselli mancanti, come il non aver mai saputo di avere ascendenze ebraiche. Il mio essere a contatto con la sofferenza psichica, con le cause e le conseguenze della perdita di contatto con la realtà, ha condotto il mio interesse, da un lato, verso gli aspetti emozionali e psicologici dell’esistenza ma anche i diversi modi d’intendere quella realtà che ci costringe ad adattarci ad una “norma” e le conseguenze politico sociali di questa norma. Dall’altro verso l’inevitabile riflessione sull’essere, gli aspetti filosofici del rapporto tra l’essere e il rappresentare, tra natura e cultura, affrontando i temi del linguaggio e delle sue molteplici implicazioni. Ho condotto atelier di terapia espressiva per quasi venticinque anni con pazienti psichiatrici molto gravi ed ho imparato che esprimersi e comunicare è una necessità di tutti e che ognuno di noi, in qualche modo, si esprime artisticamente, anche se in forme che non sono codificate come tali. Da loro ho imparato che la creatività non è un privilegio di pochi e che quando troviamo un modo di esprimerci, consonante alle nostre attitudini, la ricucitura di quello “scollamento”, di quella “mancanza d’intero” che porta allo scoperto la carne viva, diventa possibile e, quando la nostra interiorità trova protezione, possiamo ricostruirci come persone, con una nostra identità specifica. Ma l’esperienza fondamentale , quella che mi permette di frequentare le emozioni più profonde, senza caderci troppo dentro e restarne intrappolata, risale alla mia infanzia ed è il mio rapporto ancestrale con la terra. Noi piantiamo gli alberi, diceva Joseph Beuys, ma gli alberi piantano noi”.
-Cosa pensa dello stato attuale della cultura e cosa può suggerire a quei giovani che intendono avvicinarsi al mondo dell’arte.
“La cultura di oggi attraversa, come tutti gli altri ambiti della vita, un momento di fermento eccezionale, legato alla facilità delle comunicazioni, al processo della globalizzazione e alla miriade di stimoli diversi da più direzioni. Quali ne saranno gli esiti difficile prevederlo; certo nuove contaminazioni e una complessità crescente. Speriamo prevalgano la curiosità e il desiderio di apertura sulle tentazioni difensive ed esclusivamente conservatrici. La perdita d’identità – sia pure temporanea – è un rischio da non sottovalutare. Dobbiamo trovare nuovi modi per costruire identità e radici; l’arte è certamente uno – forse il migliore – di questi modi. Ai giovani, quando sono “toccati dal fuoco”, rubando l’espressione a Kay Redfield, dico che l’arte è un dono e che quando la vita ci fa un regalo così bello bisogna accettarlo ed onorarlo. Dico loro che quando una ricerca è sincera porta sempre da qualche parte e che il viaggio è più importante della meta. L’arte continua a sorprendermi; ogni volta che una tecnica, una forma, una ricerca, sembrano essere in stallo, giunte al capolinea, all’improvviso mi si presentano altre soluzioni che un attimo prima sembravano impossibili e la mia mente si spalanca a nuovi orizzonti. L’arte è un percorso che non ha mai fine e in questo sta la sua meraviglia!“
-Quali sono i suoi programmi per il futuro.
“Potrei parlarle dei miei progetti espositivi. Ne ho alcuni, in Italia e in diversi paesi del mondo, ma sono un po’ scaramantica e preferisco non farlo. Continuerò la mia ricerca di ridefinizione degli elementi della realtà. Ho sempre pensato che l’arte abbia la realtà come oggetto e che, quando cambia l’oggetto dell’arte questo accada perché il modo di percepire la realtà sta subendo un cambiamento. Basta pensare al surrealismo – che io chiamerei in altro modo – per comprendere che non erano gli artisti ad aver cambiato l’oggetto del loro interesse ma erano maturati i tempi per comprendere che il mondo interno delle persone era reale quanto gli alberi e le montagne. Come scrissi in occasione della mia mostra Reality Test, del 2003, io sono ossessionata dalla necessità di trovare una relazione armonica fra le molteplici sembianze con cui la realtà mi appare; quindi continuerò la mia ricerca cercando nuove risposte, alcune delle quali mi frullano già in testa. Di una cosa sono certa: voglio continuare a ricreare la vita, fino a quando la vita non deciderà di ricreare me”.
Maurizio Piccirillo
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