Testo critico Antonella Nigro, storico e critico d’Arte
La rosa reclusa Il linguaggio dell’inquietudine nell’opera di Hylde Salerno Hylde Salerno presenta uno studio dal forte impatto visivo ed emozionale dal titolo emblematico, Claustrophobia. Interprete essenziale e profonda del proprio tempo, l’artista ne esprime dubbi, paure e istanze con talento e passione e, quest’ultima analisi, evidentemente figlia dei dolorosi tempi funestati dalla pandemia di Corona virus, ne è testimonianza pregnante e sostanziale. In un contesto dominato dalla minaccia e dal dolore, il desiderio di fuga e di allontanamento dalla fonte della sofferenza, diventa prioritario e irreprimibile, e se ciò viene impedito, il tempo e i luoghi stessi del vivere e del quotidiano divengono penosa prigione, gravosa reclusione, che sfiora la follia. Timore, ansia, paura, panico, terrore si sposano e crescono in un climax quanto più represso tanto più fobico e incontrollabile. L’artista, attraverso una galleria d’immagini che variano solo per alcuni significativi dettagli, diviene portavoce di uno stato d’animo lacerante e disperato, utilizzando il linguaggio fotografico che, per sua caratteristica storica di documentazione concreta, avalla ancora di più il realismo dolente di tale condizione. Protagonisti gli occhi, raramente socchiusi, come in un ultimo anelito, sovente sbarrati sull’osservatore e accompagnati da stille di sangue, ad ampliare il significato di tormento e frustrazione dell’inconscio che, altresì, palesano una valenza soprannaturale e profondamente spirituale. Lacrime come sbarre di una cella rigano il viso, lo solcano, lo graffiano, trasmettendo un forte valore di segregazione e di angoscia, dall’altro posseggono l’ancestralità della catarsi, la possibilità di liberare un sentimento e di passare ad un nuovo inizio, ad una rinascita, ad un rinnovamento personale. Il timore ossessivo per il claustrum, inteso quale dimensione soffocante fisica, allegorica e, soprattutto della mente, è stata espressa, opportunamente e con grande efficacia, molto spesso nella storia dell’arte del Novecento e Hylde Salerno, memore di tali studi, li cita, sublimandoli, in un’inedita e attuale rielaborazione. Si riscontrano, negli attraversamenti trasversali dell’immagine, a mo’ di sbarramenti, acuiti e moltiplicati dalle ombre, le stesse gabbie nelle quali Francis Bacon rinchiudeva i suoi soggetti nella serie degli studi dal Ritratto di papa Innocenzo X di Velàzquez, così come le bende sugli occhi e il senso di asfissia sono memori di White Gauze di Robert Mapplethorpe e del noto Les Amants di René Magritte. L’artista, dunque, ripercorre le inquietudini e i turbamenti che già segnarono artisti consci delle tensioni e degli affanni che contraddistinsero i propri tempi e, come e più di loro, ne interpreta gli animi senza filtri, senza edulcorazioni in termini ottimistici, ma con una visione oggettiva dai tratti amari ma veri. Protagonisti, dunque, il viso con le sue espressioni accorate, ma ancor di più la bocca urlante che brama un ricercato, prezioso refolo d’aria, il collo esposto al soffocamento con cappi e mani dall’indissolubile presa, ecco il rimando strettamente connesso a celeberrimi soggetti pittorici sospesi e cristallizzati nel grido, dalla Medusa caravaggesca all’ Urlo munchiano, che condividono con Hylde il senso profondo e insanabile della sconfitta e dell’isolamento. Il taglio prospettico proposto dall’artista, è infine, indicativo di una lettura iconografica nella quale la testa emerge dal fondo e dalle spalle che appaiono indistinti, sfumati fino all’evanescenza. Se ne trae una volontà di rappresentazione specifica, ove la decollazione risulta chiave di lettura dell’opera: il corpo è altrove, separato, imprigionato, impossibilitato al movimento, dunque, alla sua stessa esistenza. L’artista, così, interpreta il bellissimo mito del musico Orfeo che smembrato dalle Menadi, sopravvive nel capo, preservato all’orrore dalla pietà di una ragazza tracia, che continuerà a cantare nel tempio apollineo di Delfi, narrazione resa, con grazia e pathos, da Gustave Moreau e Jean Delville. Hylde Salerno, in questa sentita disamina, densa di aneliti di un affrancamento che coinvolga tutti i sensi e le varie dimensioni della vita, è davvero simile a La rosa reclusa (Le Tombeau des Lutteurs, 1955) di René Magritte che, sembra tentare, con i suoi delicati petali d’un rosso vivo, di forzare e abbattere le pareti della stanza che la conchiude, uno sforzo che resterà forse vano, ma bellissimo nel suo intento di suggerire l’impossibile nel lirico azzardo di raggiungerlo.
Antonella Nigro [Storico e Critico d’Arte]
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