Testo critico Noemi Manna, storico e critico dell'arte
ESPLETARE IL DOLORE Il mezzo artistico come rito di liberazione Erede della lezione dell’arte del ‘900, che mostra una straordinaria attenzione alla corporeità e all’identità, Hylde Salerno realizza, tra il 2017 e il 2019, due microcosmi artistici, “Dimenticanze” e “Maternità”, che riflettono problematiche estremamente attuali della società contemporanea. Dopo aver subito uno shock post-traumatico con attacchi di panico importanti, la pittrice ha trovato nel mezzo artistico il suo canale di risanamento. Come sottolinea il critico d’arte Lidia Reghini di Pontremoli nel testo ”Primitivi urbani” del 1998 (Edizioni Ø Art gallery Internet): «Assistiamo oggi ad una migrazione energetica dell’arte che equivale ad un cambiar pelle, ad un essere mutanti per sfuggire alla pratica univoca del “trovare se stessi”» e l’arte diventa così unico antidoto al rischio di alienazione. Quello di Hylde Salerno è un lavoro sulla memoria, sul dolore e la sua capacità di scomporne ogni singolo aspetto. Nelle opere qui analizzate sono presenti elementi di pura geometria simbolica. L’artista ha elaborato un “campo iconico comune”, definito come patrimonio visivo collettivo insito nella memoria cellulare umana e trasmesso, in questo caso, attraverso l’arte. All’interno di questo patrimonio visivo vi sono degli elementi e delle forme che si ripetono in maniera sistematica, tanto da poter essere definiti degli archetipi visivi. Questi elementi sono percepiti dall’osservatore che riconosce le forme archetipe presenti nell’opera pittorica, come la “caduta” verticale di colori complementari, quali il blu e l’arancione, il grafismo ondulatorio caratterizzato da colori bruni, la scrittura, la presenza di lettere d’amore, poesie e/o strappi nella tela. Le dieci opere che distinguono la prima parte di questa serie si susseguono in ordine cronologico per poi presentare l’immagine dell’artista che si fotografa, nelle ultime due opere (“Dimenticare il dolore” e “Strappare i brandelli di me”), durante un attacco di panico. La serie “Dimenticanze” riflette su tutti gli aspetti dell’ansia. Dallo stadio primordiale, dove non è evidente la causa del dolore, fino all’individuazione di elementi cosiddetti ansiogeni, come ad esempio la “La tradizione”, alla quale l’artista dedica due tele. Qui è chiara la volontà di intrappolare, attraverso la grafia, gli elementi della tradizione passata, come l’uso di gesti apotropaici che, ricoperti da colate di colore nero, indicano la volontà di cancellare, eliminare, tutti quegli aspetti che pongono l’anima in uno stato di malessere. Mentre nella seconda tela si assiste al superamento dell’ostacolo e la scrittura si frantuma in pezzi di puzzle sorretti da corda grezza, come simbolo di “passaggio” e di guarigione. Infine, “Dimenticare gli occhi” è la rappresentazione estrema dello stato ansioso, percepito in maniera evidente dall’osservatore. L’azione di identificazione e di risoluzione del nucleo di sofferenza che contraddistingue l’intera serie è un rito che si attua per dare forma all’ansia, per scacciare il dolore, per riconoscerlo e renderlo visibile, esorcizzarlo e superarlo. Si evince, dunque, nella volontà dell’artista una correlazione tra arte e pratiche primitive, come il rito purificatore dello sciamano che trattiene in sé un carattere fortemente creativo, grazie al quale porta al di fuori di sé quel disturbo interiore che ostacola la vita. Si evoca il rituale della pratica demiurgica che rende visibile elementi riconoscibili dalla società. Si comunica cioè uno stato d’animo che ritualizzato, attraverso il gesto artistico, viene innalzato ad uno stato altro che non può più influenzare il normale flusso della vita. Nelle cinque opere finali della serie qui presentata, Hylde Salerno racconta la “Maternità” utilizzando sempre il rito estatico che vede al centro dell’oggetto-arte la sua riproduzione fotografica. Si abolisce il concetto dell’eternità dell’arte e l’opera si sveste della sua definizione primordiale, non è più oggetto sacrale o di devozione museale, ma diventa corpo ibrido, mutante nel tempo e nella percezione della collettività. È l’arte dell’organico dove la fotografia fa da sfondo alla materia un tempo viva, al sangue che rappresenta la possibilità di dare la vita. La fotografia si spoglia del suo ruolo per mescolarsi, attraverso gesti tangibili, con il corredo genetico dell’artista. Dunque l’arte, liberata dai condizionamenti del passato, vive a pieno della mescolanza delle nuove forme comunicative. Si attuano, visibili sulla tela, i luoghi dello spirito, dell’inconscio, delle paure che si annidano sul fondo dell’anima. Unico modo per scacciarle e ritrovare la luce è la ricerca interiore del buio e la sua fuoriuscita, attraverso il mezzo della tela, come pratica antropologica. L’artista utilizza il proprio corpo come estensione delle sue costruzioni pittoriche e come medium creativo per esplicare l’ansia della maternità. Impiega materiali naturali come sangue mestruale, materie organiche, garze, colori bruni e neri stagliati sulla tela candida. I simboli della crocifissione (la corona di spine, i chiodi) diventano sinonimo del dolore e il corpo si divide in due nell’infinito della creazione. L’artista cerca in questo modo di congiungere il gesto materiale del fare con quello immateriale dello spirito, identificato attraverso il sangue che genera la vita. La circoscrizione del campo d’azione con elementi pittorici e materiali organici indica la negazione, evidente in particolare nell’opera dal titolo “La Condanna”, mentre l’idea del corpo che plasma l’opera d’arte con gesti, azioni e processi diventa metafora della creazione.
Noemi Manna [Storico e critico dell’arte]
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