Nel 1915 si consumava una tragedia umana, i protagonisti sopravvissuti pagheranno il prezzo di essere stati testimoni, nella responsabilità di andare oltre al male perpetuato nei loro confronti.
Quando il mondo è volontà nella sua rappresentazione. Sevak Grigoryan presenta il suo punto di vista dinanzi al genocidio armeno. Lo fa raccontando l’infanzia. La perduta innocenza di chi dinanzi alla morte, all’odio, è costretto a dare ragione, a dare risposta, ad andare oltre la facile contrapposizione.
I sentimenti e la passione che le opere trasudano,sono l’operazione di un artista che non ha paura di mettersi in discussione. Di un artista che scava nel proprio inconscio quelle immagini della paura dinanzi alla morte. Di un artista che sperimenta se stesso bambino, se stesso uomo dinanzi all’orrore di conoscere nella vita terrena anche il male e porsi di fronte ad una scelta. Di un artista che sperimenta un linguaggio possibile per favorire l’identificazione dell’osservatore. Di un artista che sviscera i sentimenti istintivi, legati ai meccanismi della sopravvivenza della specie, e contemporaneamente tenta, riuscendoci, a elaborare un lutto storico. Di un artista che prova a dare una chiave di liberazione dal dolore attraverso lo strumento della cultura.
La sua visione alchemica si ritrova nella scelta cromatica: nero, rosso e bianco. Il nero, che stringe e costringe i corpi, che esalta lo stupore negli occhi, che annulla ogni forma esteriore. Il rosso, che delinea , con pennellate ardite, le pose inusitate di bambini costretti ad essere testimoni, ad essere dei sopravvissuti. Il bianco la liberazione, la luce, l’aurora, la speranza. A quest’ultimo è rivolto lo sguardo dell’unica opera scultorea presente nella mostra. Perché Sevak anzitutto è uno scultore. E scolpisce senza remore le immagini che la memoria del cuore non può dimenticare.