CIELO TERRESTRE. Infinite traiettorie del caso
La mostra personale dell’artista umbro Matteo Ciampica “Cielo terrestre. Infinite traiettorie del caso”, allestita a Todi (PG) presso la Sala delle Pietre dei Palazzi Comunali, ha proposto una quarantina di opere, espressione della ricerca e delle sperimentazioni incessanti dell’ultimo decennio volte ad approfondire l’indagine sulle proprietà sensoriali del colore e le potenzialità plastiche della materia cromatica; un processo creativo intenso e fecondo, culminato nella stesura del ciclo pittorico Aphonia, di grande respiro e potenza visiva, dispiegato in un susseguirsi di variazioni cromatiche attorno allo stesso tema, allo stesso fulcro concettuale, ma con soluzioni ed esiti formali differenti.
La produzione in mostra era incentrata su tre nuclei di opere, il cui codice espressivo, tutt’altro che univoco, si è articolato in diversi registri iconici e stilistici mirabilmente padroneggiati dalla forte personalità dell’autore, da considerare tra le più interessanti del panorama artistico emergente per la sua capacità di trasfigurare echi e suggestioni della tradizione pittorica e del retaggio estetico di passate stagioni in un linguaggio formale autonomo e originale, svincolato da scuole o correnti del nostro tempo, ma profondamente radicato nella contemporaneità.
Il titolo stesso della mostra racchiude nella sua formulazione completa il senso, la complessità e la profondità della ricerca artistica di Matteo Ciampica. Nelle parole iniziali è sintetizzato uno dei capisaldi della sua Weltanschauung, ovvero il tema del dualismo cosmico Cielo-Terra, esplicitamente ripreso dal Trattato del Cielo Terrestre di Venceslao Lavinio di Moravia, un testo noto nella letteratura alchemico-esoterica del XVII secolo. In particolare, nel passo che fa riferimento a un processo di trasmutazione degli elementi in “…una terra pura che, per un forte legame, possiede le virtù dei Cieli più alti rinchiuse in sé; e proprio perché questa stessa terra è unita e congiunta al Cielo, le do il bel nome di Cielo Terrestre”, si condensa l’assunto filosofico in cui più compiutamente si rispecchia l’immagine del mondo rappresentata dall’artista.
Gli scenari del ciclo Aphonia, del tutto privi di oggetti artificiali, di episodi di carattere narrativo e scevri da qualunque finalità descrittiva, si connotano essenzialmente come paesaggi interiori intrisi di una forte carica simbolica. Sul piano terrestre, separato quasi impercettibilmente dall’etere caleidoscopico mediante il profilo collinare appena ondulato, che determina la linea dell’orizzonte, si innalzano a distanze variabili sagome di cipressi fieramente protesi verso l’alto con le chiome folte e puntute. Con una configurazione simile a pilastri cosmici, i cipressi punteggiano ogni orizzonte tracciato in questa serie pittorica, assumendo la stessa valenza ancestrale di un allineamento di menhir. L’artista ha fatto di essi un codice, una cifra stilistica che è forma e contenuto al tempo stesso; non sono estranee infatti all’adozione di questo “segno” distintivo né le caratteristiche morfologiche della pianta e la sua diffusa presenza nella terra di origine del pittore, né la natura “sacrale” di albero primigenio, assurto fin da tempi remoti a simbolo dell’immortalità e in questo contesto più che mai identificabile con l’axis mundi (l’asse dell’universo), cardine della cosmologia religiosa di antichissime civiltà. In un’accezione ancor più suggestiva per valenza esistenziale e autentica in quanto più fedele alla concezione dell’autore, potremmo spingerci a trasfigurare ciascuna di queste fiammelle arboree in altrettante anime che popolano l’orizzonte terrestre, viventi assi di congiunzione terra-cielo che ciascun essere umano, di fatto, incarna.
Il paesaggio disadorno ed essenziale si staglia solitario sulla sconfinata vastità di un cielo sferzato dai vortici cromatici dell’Abstract Expressionism, dando luogo a una compenetrazione vibrante dell’elemento figurativo con le forme dell’astrazione, del piano fisico con quello sovrasensibile. L’impressione trasmessa dagli “interminati spazi” che si aprono al nostro sguardo è quella di trovarsi di fronte a una riproposizione della categoria teoretico-estetica del Sublime, che ha permeato una parte significativa della produzione pittorica europea del periodo romantico e che appare qui reinterpretata in una chiave originale e secondo canoni di assoluta contemporaneità, sia sul piano concettuale sia su quello esecutivo. In particolare, la costruzione spaziale dell’immagine, così come il tipo di stesura cromatica, rimandano a quel “sublime dinamico”, secondo la definizione di Kant, riferibile alle manifestazioni della natura caratterizzate da potente esplosione di energia, dallo scatenarsi della furia degli elementi che imprime una vorticosa velocità all’atmosfera. Così pure l’essenzialità della sintassi compositiva, basata su una scansione dello spazio sostanzialmente bipartita, in cui l’elemento figurativo in basso – combinazione di linee orizzontali e verticali - occupa una parte infinitesimale rispetto all’incontenibile dilagare del cielo immenso, si richiama anch’essa alla poetica del Sublime, recepita nella sua declinazione più meditativa e spirituale volta a mostrare l’eterno dialogo ìmpari tra finito e infinito, tra dimensione transeunte terrena e totalità cosmica.
Nel nucleo di dipinti appena descritto, l’indagine si focalizza su una spazialità fortemente dinamica, generata da un’energia gestuale dirompente che si fa specchio diretto dello stato d’animo dell’autore e nella quale al contempo lo spettatore, operando una sorta di immedesimazione, può leggere il riflesso della propria condizione interiore. Sono tele caratterizzate da una pittura all over fatta di materia cromatica accesa, densa e vibrante, in cui il colore svincolato dalla costrizione della forma pulsa di vita autonoma e crea uno spazio visivo magnetico, ipnotico, capace di coinvolgere l’osservatore in un rapporto immersivo e totalizzante con l’opera. E sono questi i lavori in cui si condensano e si esprimono con evidenza plastica tutti i nodi tematici evocati nel titolo della mostra, dal dualismo celeste-terrestre alla poetica del caso e delle sue infinite traiettorie, che costituisce una componente centrale nelle riflessioni esistenziali dell’autore.
Il caso è, secondo la visione di Ciampica, il regno dell’imprevedibile, è la forza imponderabile e indeterminabile che governa le sorti del mondo terreno, investendolo con le sue multiformi, mutevoli diramazioni. Il luogo della sua rappresentazione viene quindi fissato nel tumultuoso spazio sovrastante la linea dell’orizzonte, che demarca il confine tra la sfera umana e il respiro del cosmo accessibile solo alla proiezione emotiva, laddove la superficie pittorica appare attraversata da traiettorie intrecciate, multidirezionali, da grovigli di colore in cui il pigmento assume una consistenza fisica, diventa materia, sostanza corposa come fosse biologicamente dotato di una sua propria vitalità. La pennellata libera e impetuosa a tratti si addensa tanto da formare increspature ramificate a rilievo sul tessuto pittorico, che si compenetrano in una dialettica serrata con i solchi prodotti dalle graffianti sferzate dei colpi di spatola. Ma tutta questa dirompente esplosione di linee e di energia cromatica, cui l’autore affida la traduzione per immagini dell’onnipresenza e pervasività delle insondabili leggi del caso, non implica la convinzione che il genere umano sia inesorabilmente destinato a soccombere ad esse. In questa chiave interpretativa, a fare da contraltare al turbine dinamico della casualità, l’immota presenza dei cipressi saldamente piantati al suolo lungo la linea dell’orizzonte (metafora, come si è detto, dell’individuo e del suo transito terrestre), ci appare come un appiglio visivo, quasi un simbolo di fermezza e autodeterminazione.
Il percorso espositivo ha poi condotto lo sguardo saturo di accensioni cromatiche verso un nucleo di opere dall’impianto compositivo più “studiato”, più controllato, da cui traspare la volontà di incasellare l’afflato cosmico in un ordinato schema di geometrie elementari. E’ in questa serie di tele che il concetto richiamato nel titolo della mostra e già ampiamente enunciato ha raggiunto la sua espressione più compiuta. I paesaggi simbolici tracciati da Ciampica, dove l’orizzonte è soltanto un limite temporaneo, sono qui racchiusi all’interno del cerchio, forma da sempre associata all’idea di perfezione, di unione, di totalità ma al contempo alle possibilità evolutive, perché conformato a grande contenitore che accoglie infinite prospettive di sviluppo. Questa celeste dimora circolare non viene trattata dall’autore come figura a sé stante, ricondotta cioè al semplice formato del tondo, ma volutamente messa in relazione visiva non meno che dialettica con il quadrilatero della tela. La troviamo sia perfettamente inscritta sia posizionata asimmetricamente nel formato quadrangolare, quasi a trasmettere la sensazione di galleggiamento all’interno della corrente magnetica che la circonda. Assumendo il simbolismo del cerchio come rappresentazione della dimensione intellettuale e spirituale, nella sua relazione dicotomica con la forma quadrata esso incarna il cielo in rapporto alla terra, a tutto ciò che è materiale. Le colature di colore più o meno copiose che vediamo sconfinare verso il basso oltre il perimetro circolare, come attratte dalla forza di gravità, altro non sono che l’immagine dinamica della compenetrazione tra Terra e Cielo, tra l’imperfetto o il perfettibile e l’etereo mondo superno.
Al culmine della ricerca estetica e filosofica di Ciampica si colloca un piccolo nucleo di dipinti su tela e su tavola dominati dall’accostamento nero-oro. Improvvisamente tacitate le multiformi e policromatiche traiettorie del caso, il cielo si oscura, espandendosi in una campitura uniforme su cui si stagliano dorate sagome di cipressi, come sottili lingue di luce a squarciare la tenebra. Il colore nero dilaga ovunque, sconfina arrivando a inglobare la cornice del quadro, a significare che lo spazio infinito, nella sua vastità incalcolabile, può contenere tutto. Il sostanziale monocromatismo non appiattisce le superfici che, al contrario, increspate da una stesura pastosa del pigmento assumono una consistenza tattile, generando l’effetto di una luminescente craquelure. Il fondo nero si fa scenario fatale di fissità e quasi di eternità con cui si confronta la relatività temporale dell’oro. Nella stesura di questi dipinti l’autore ha operato un processo di riduzione del linguaggio della pittura al suo “grado zero”, come dire ai suoi elementi primari, lasciando all’assolo cromatico e alla modulazione della superficie il compito di strutturare una nuova ritmica dello sguardo. Si assiste qui al compimento della reductio omnium ad unum, richiamo e riassorbimento del molteplice variamente disseminato e variamente configurato all’Unità. Il punto più alto di astrazione è raggiunto. Nel Cielo Terrestre si conciliano gli opposti del mondo e le antinomie della vita. Allo spettatore è consegnata la dimensione contemplativa del silenzio.
Cinzia Cardinali [Curatore e Critico d'Arte]
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