Upupe e Papaveri
Upupe e Papaveri
“La linea Gustav tra Cassino e Ortona”, mostra di arte contemporanea dell’artista Alessandro Nardone: un invito fortuito che si trasforma in una splendida occasione di scoperta, di conoscenza, di beltà, di interazione. L’inaspettato diviene possibilità di incontro. Con la persona, con la cultura, con la storia, con la città, con l’arte, con l’artista.
Alessandro porge un’accoglienza spontaneamente vigorosa, brillante, briosa, intensa, piena e rotonda. Il suo fare cattura, conquista e trascina fascinosamente nel suo ricco mondo, rivelandosi immediatamente attraverso la sua schiettezza. Una personalità coinvolgente, un animo sensibile, un artista che prima di essere tale ama essere persona, intessendo rapporti semplicemente e naturalmente autentici con chi incontra.
Attraverso le opere, poi, si incontra l’artista. L’ arte di Alessandro si palesa agli occhi proprio come la persona: il soggetto pulito, chiaro, evidente, i colori essenziali. Uno scambio continuo tra chiari e scuri, bianchi, neri e grigi che possono arrivare dapprima, a colpo d’occhio, come fredde pennellate senza sensazione ma che un attimo dopo si trasformano in calore puro che arriva e parte allo stesso tempo direttamente al / dal cuore dell’osservatore. Un gioco calibrato, ben pensato, sino a quando si incontrano, oltre alla forma, al soggetto evidente, anzi al segno visibile, altri scenari, altri significati. Le tele catturano l’attenzione nella loro interezza, nella loro completezza. Ammirandole, lasciandosi rapire dalla loro intensità e dalle sensazioni che iniziano a farsi spazio nell’animo, lo sguardo si sofferma sui singoli oggetti/soggetti rappresentati: ecco, allora, che si intravedono altre forme, altri quadri, altri rimandi. Sembra che ogni centimetro di tela possa essere, o diventare, un dipinto a sé. Non solo il manifesto della guerra ma il manifesto dell’anima di ogni uomo dove al visibile agli occhi si affianca una più nascosta e confusa possibilità.
I volti dipinti, anche quelli poco definiti, evocano umanità, umiltà, nostalgia, disperazione, rassegnazione per quel che è andato perduto, che non è e non sarà più, per l’atrocità dell’accaduto. La straordinaria mano di Alessandro, al contempo, dipinge su quei volti segnati e forse anche familiari, quell’operosità intrinseca nei mondi delle persone comuni, instancabili, di sani valori. Le espressioni reali, le facce che sembrano ritratti di gente comune, la capacità di “catturare” un momento e un movimento, facendolo continuare sulla tela, rendono ancora più vive, vere, vicine e accessibili le opere. E da quei visi addolorati, apparentemente sconfitti, il grande artista riesce a cogliere anche il desiderio di sopravvivere, anzi proprio di vivere. E sì che avrebbero potuto accontentarsi anche di sopravvivere dopo tanto dolore, ma questa è tutta un’altra storia. Una loro storia personale fatta di riscatto, di ricerca di un’identità negata, lontana dal consolatorio “basta che ci siamo salvati e che viviamo”. Loro provano a vivere veramente, con più dignità, pienezza ed amore. La parola amore, che viene notoriamente equivocata, abusata, inflazionata, perfino violentata, qui assume una consistenza sua propria. Connotata da un senso di speranza inteso non come attesa passiva di qualcosa che accada, ma inteso, invece, come confluenza delle energie personali più intime con quelle collettive più intime. E qui il cerchio si chiude, creando un terreno dove il singolo individuo è messo in grado di far confluire le proprie energie di dentro con quelle degli altri. Questa è ricostruzione, per niente pietistica: anzi, è un gesto di creazione vera e propria, teso a fare nientemeno che la storia. Per meglio dire, è come se le creature della pittura del Nardone esprimessero la loro piena voglia di esserci, sia contro il tentativo di chi aveva criminalmente deciso la loro soppressione, sia contro quel senso di rassegnazione tipico degli oppressi. Proprio come l’ utilizzo dell’alternanza, della convivenza di luci ed ombre rimanda alla testimonianza della speranza della rinascita: per chi resta, per chi verrà. Per ricordare che nella fine è già presente un nuovo inizio.
La pittura di Alessandro mette in cornice frammenti di realtà ormai lontana. Uno dei suoi meriti, una sua capacità, è proprio quella di permettere un andare verso quella storia ormai impressa nel cammino dell’uomo, facendola incontrare non solo osservando ma quasi catapultando nelle sue tele. E’ questo che accade con i suoi lavori: non basta e non si può solo guardare, sono le opere stesse ad avvolgere, a contattare quell’intima parte di noi che ri-conosce l’emozione “rappresentata” e che l’artista stesso ha probabilmente richiamato in primis, dipingendo al buio con solo una luce puntata su una tela bianca in attesa di essere arricchita. Nessuna distrazione, solo il darsi alla pittura per dare, comunicare ad altri espressività, sensibilità, emotività, storia, dolore, rinascita, utilizzando come strumento occhi, mani, colori. E sì, perché Alessandro ci tiene tanto a ribadire come gli occhi e le mani siano non solo strumento di creazione, ma siano proprio elementi rivelatori della sensibilità presente in noi.
In tale occasione, un maestro di vita mi ha detto: non è importante tanto quello che accade, quanto ciò che ci fai con cosa accade. E gli ortonesi si sono rimboccati le maniche: per la proposta, per la ri-costruzione, per la cooperazione. Partendo dall’impossibilità e dalla volontà di non cancellare l’accaduto, negandone il dolore e l’angoscia.
In questo senso, ne hanno affidato la testimonianza e la cura alle opere di Alessandro, pronte a diventare un punto di forza per il presente e l’avvenire.
Anastasia Pascale.
Anastasia Pascale
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