Albert Watson
Albert Watson nasce (1942) e cresce a Edimburgo, studia grafica al Duncan of Jordanstone College of art and design di Dundee e segue i corsi di cinema e televisione al Royal College of Arts di Londra. Cieco sin dalla nascita a un occhio, decide di studiare fotografia. Nel 1970 si reca con la moglie Elizabeth negli Stati Uniti; Elizabeth comincia a lavorare come maestra di una scuola elementare a Los Angeles e Albert comincia a fare fotografie, per lo più come passatempo.
Quasi ogni giorno, quando prendo in mano la macchina fotografica, dimentico tutto il resto. Posso avere fame, avere sete, posso essere stanco… dimentico ogni cosa. Usare la macchina fotografica è una combinazione di sensazioni. Da una parte sono in pace, sono nel pieno della calma, dall’altra sono in conflitto e in confusione. Ma, alla fine, vince la calma. Sento la pressione ma, ancora dopo tutti questi anni, è qualcosa che apprezzo molto.
A fare bella una foto non è l’obiettivo (anche se ha le lenti migliori sul mercato). E neppure il soggetto inquadrato (anche se è Kate Moss 18enne, nuda, sulla spiaggia di Marrakech). È la personalità del fotografo. E se lo dice Albert Watson, uno dei 20 maestri più influenti di sempre (secondo la rivista americana e bibbia del settore, Photo District News), ci possiamo credere.
D’altronde lo scozzese Albert Watson ha una sterminata esperienza alle spalle, che va dalla moda (ha scattato più di 100 copertine per Vogue e numerose campagne per le maggiori maison mondiali), alle celebrities (i ritratti di Keith Richards, Clint Eastwood, Barack Obama, Steve Jobs sono diventati delle icone; quelli di Naomi Campbell, Nadja Auermann, Cindy Crawford dei simboli di bellezza), ai paesaggi (Scozia, deserto del New Mexico, Londra, Los Angeles, Napoli).
O un Mick Jagger/giaguaro
La suacondizione di non vedente da un occhio, il suo sguardo sul mondo e sugli uomini è, per così dire, fotografico per natura, per via proprio della sua vista monoculare
Annoverato dal periodico Photo District News tra i venti fotografi più influenti di sempre accanto a Irving Penn e Richard Avedon, Albert Watson ricorda per una certa classicità, per la ricchezza tonale e per la plasticità dei suoi scatti proprio questi due maestri, rivoluzionari della moda e del ritratto.
Albert Watson è diventato una leggenda della fotografia, noto soprattutto per i suoi ritratti.
L’uso che fa della luce è audace e intuitivo e il modo in cui la modella è l’essenza delle sue famose immagini iconiche.
Watson unisce all’originalità dello scatto una competenza e una consapevolezza dello strumento rare. Rifugge dal tecnicismo non funzionale al risultato, ma allo stesso tempo padroneggia perfettamente la tecnica fotografica e rivendica un controllo totale dell’immagine, fino alla stampa, che effettua personalmente nel suo studio a Tribeca, affinché non siano altri a interpretare il suo lavoro.
Fotografa Steve Jobs regalandoci il suo ritratto più celebre, frutto di una session rapidissima, vista la poca disponibilità del creatore di Apple verso i fotografi. Watson decide di adottare per l’occasione uno stile secco e grafico, da fototessera, chiedendo a Jobs la posa e l’espressione che avrebbe in una riunione di lavoro. Ne risultano quel leggero sorriso, quella disponibilità sottilmente ironica e quella fermezza granitica: l’espressione di chi ha in mano il futuro. A Jobs piacque tanto che dichiarò: «È la migliore fotografia che mi abbiano mai scattato». E fu proprio quella la foto scelta da Apple per annunciarne la morte.
La foto del 1973 di Alfred Hitchcock che tiene per il collo un’oca – irriverente, ironica, unica più che originale – già denota l’essenza del suo stile: «Non sono le fotografie e i soggetti ad essere speciali ma le idee che racchiudono».
Le sue fotografie fanno parte delle collezioni permanenti di molti musei, tra i quali National Portrait Gallery di Londra, Metropolitan Museum of Art, di New York, il museo di Arte Multimediale di Mosca e il Museo Folkwang di Essen.
E' storia di questi giorni il suo incarico per confezionale The Cal, il calendario Pirelli del 2019
A cura di Emanuele Davi