Vivian Maier
Vivian Dorothea Maier nasce il primo febbraio 1926 a New York, nel Bronx.
È figlia di Maria Jaussaud, nata in Francia, e del marito Charles Maier, di origine austriaca.
Vivian si trasferisce e vive in Francia fino all’età di 12 anni. Nel 1938 torna a New York, città in cui inizierà la sua vita di governante e bambinaia. Il primo impiego è presso una famiglia a Southampton, nello stato di New York. Poi nel 1956, si trasferisce a Chicago per lavorare con la famiglia Gensburg. Verso la fine della sua vita si ritrova in gravi ristrettezze economiche e un giorno viene ricoverata per un banale incidente. Quel ricovero, che doveva essere passeggero, si rivela fatale. Muore il 21 aprile 2009.
Ha lavorato tutta la vita come baby-sitter, trascorrendo il tempo libero facendo fotografie per le strade Solo poco prima della sua morte sono stati ritrovati per caso i rullini con le sue splendide foto, e lei è diventata un'artista celebre.
Sotto i panni grigi di un donnone alto e non particolarmente aggraziato, che ha passato la vita a fare la tata in benestanti famiglie americane, si nasconde uno dei talenti più sorprendenti della street-photography del Novecento.
Talento vero e innovativo, ché quando Vivian Maier (1926—2009) ha preso in mano la macchina fotografica, nessuno si azzardava a scattare «per strada», fuori dalle luci protette di uno studio.
le foto di Vivian Maier «parlano da sole» e registrano, con i loro tagli obliqui e un uso sapiente della macchina fotografica, la cronaca su strada di diverse città americane, tra cui Chicago, Los Angeles, News York. Ci sono bambini, innamorati che passeggiano, mendicanti, operai. C’è la vita della metropoli, le luci dei quartieri alti, le ombre dei vicoli più miseri.
Molte fotografie, specie quelle su Chicago, sono state scattate mentre Vivian accudiva i figli che le erano stati affidati, altre sono state fatte nei suoi rari momenti liberi.
Della doppia vita di tata Vivian non avemmo mai saputo nulla se John Maloof, scrittore e giornalista americano, non si fosse trovato in difficoltà nello scrivere un libro storico su Chicago. Cercava materiale fotografico per illustrare il volume: andò a una battuta d'asta, una di quelle in cui si mettono in vendita gli oggetti pignorati dal fisco. Si aggiudicò per meno di 400 dollari un baule con dentro parecchia documentazione sulla città, materiale confiscato per il mancato pagamento dell’affitto di un piccolo appartamento.Venne in possesso di circa 100.000 negativi. Di fatto, il più grande tesoro fotografico nascosto del secondo Novecento: una miniera di fotografie in bianco e nero e a colori, pellicole non sviluppate, stampe e filmini. Era il 2007 e Vivian Maier stava passando un periodo molto duro: poverissima, sola, malata e anziana, fu costretta a vendere gli oggetti di casa (compreso il baule con tutte le foto: possibile che non ricordasse di averle messe lì, lei che ne era gelosissima, lei che non faceva vedere i suoi lavori a nessuno?).
Poco dopo l’asta, l’anziana tata cadde per strada a New York e riportò una grave ferita alla testa che ne compromise per sempre la lucidità: Maloof non riuscì mai a farle sapere che aveva le sue foto e che era disposto a organizzarle un archivio, delle mostre, a mostrare al mondo i suoi incredibili lavori
Tata Vivian ha passato letteralmente la vita prima con la Rolleilex poggiata sul ventre e poi con la Leica davanti agli occhi: va considerata come la prima street-photographer e anche una sorta di iger, perché adorava ritrarre all'improvviso (quasi tutti i protagonisti delle sue foto sono soggetti inconsapevoli delle sue storie in pellicola)
Modernissima, la Maier. Tanto che persino artiste di oggi come l’americana Gail Albert-Halaban insistono ancora su progetti fotografici «dietro le vite degli altri» che somigliano ai suoi lavori: il fascino degli sconosciuti, fissati dalla macchina fotografica,
Potrebbe essere una storia triste questa della tata Vivian che passò la sua esistenza in sordina, a fare letteralmente da balìa a bambini destinati a carriere gloriose, mentre era lei stessa a possedere un talento non comune, ma non lo è.
Chi l’ha conosciuta la ricorda come una donna indipendente, volitiva, forte. Oltre ai suoi straordinari lavori, restano impressi su carta fotografica il suo volto enigmatico, i capelli corti, la figura imponente: la vediamo nel riflesso di una vetrina o di uno specchio, questa tata che ha cambiato, con dedizione silenziosa, la storia della fotografia.
Fotografa non solo quello che vede, ma come lo vede. Ed è questo che fa grande un fotografo: fotografare il proprio sguardo, anche se poi l’oggetto è una donna con la veletta, un uomo che dorme sulla spiaggia, una serie di ombre sulla strada, gente comune sui marciapiedi, edifici delle città. Vivian coglie sempre dei particolari, dei dettagli (le gambe delle persone, un gesto, le teste viste da dietro), e trasforma la parte in un tutto.
Quale «tutto»? L’umanità delle persone, e persino quella dei luoghi. L’umanità non è una qualità che si fotografa facilmente, perché nonostante tutto si sottrae quasi sempre, e se appare, è artefatta, in posa, innaturale . L’umanità di Vivian Maier le assomiglia, è in definitiva la sua umanità, qualcosa d’imprendibile e di labile a un tempo, per quanto non c’è nessuna delle foto che ha scattato che non contenga qualcosa di memorabile.
Vivian Maier fotografava, ma poi preferiva di no.
Il segreto della sua arte è in quel silenzio, oltre naturalmente che nel suo sguardo, l’unica cosa che ci resta davvero.
A cura di Emanuele Davi