James Nachtwey
James Nachtwey
Syracuse, stato di New York, nel 1948
«Sono stato testimone e queste immagini sono la mia testimonianza. Gli eventi che ho registrato non devono essere dimenticati e non devono essere ripetuti »
Nato a Syracuse, stato di New York, nel 1948, Nachtwey è cresciuto nel Massachusetts. Ha studiato Storia dell’Arte e Scienze Politiche. La sua passione per la fotografia è nata osservando le immagini riguardanti la guerra nel Vietnam e i movimenti per i Diritti Civili. In seguito alla scoperta della passione per quest’arte, ha cominciato a lavorare come fotogiornalista nel 1976 per un quotidiano locale del Nuovo Messico. Nel 1980 si è trasferito a New York, dove ha proseguito la carriera come fotografo freelance. Il 1981 è l’anno che vede il suo battesimo come vero fotoreporter: svolge infatti il suo primo incarico all’estero in Irlanda durante lo sciopero della fame di alcuni militanti dell’IRA. Da allora, Nachtwey dedica la sua intera attività a documentare guerre e conflitti sociali. Reporter del Time dal 1984, ha lavorato anche per l’agenzia Black Star dal 1980 al 1985 ed è stato membro della Magnum Photos dal 1986 al 2001. Nel 2001 ha fondato con altri fotografi l’Agenzia VII. Ha vinto l’Eugene Smith Memorial Grant in Humanistic Photography, e il prestigiosissimo premio Robert Capa Golden Medal per cinque volte, ed è stato per sei volte Magazine Photographer of the Year.
Rwanda 1994
Fotografa l’inferno da 40 anni. E’ una leggenda vivente ma tira dritto. James Nachtwey è un fotografo che va conosciuto per una lunga serie di ragioni.
Dove si soffre, dove si lotta, dove si spara, dove regnano fame, conflitti, disperazione, malattie e disastri, lui c’è, e c’è la sua macchina fotografica. E lì, nel mezzo dell’Inferno (ha intitolato “Inferno” il suo libro più intenso) Nachtwey trova immagini potentissime nel contenuto quanto sul piano estetico.
Zimbabwe 2000 padiglione malati di Tubercolosi e Aids
Ed eccoci subito alla questione che lo perseguita da sempre in termini di critiche e polemiche: tralasciando che alla sua vocazione di testimone (e nessuno lo ha costretto) ha sacrificato molto in termini personali e privati, tralasciando che la sua attività fotografica ha messo più volte a repentaglio la sua stessa sopravvivenza regalandogli gravi ferite, tralasciando che noi qui al caldo siamo quelli di “armiamoci e partite”, tralasciando tutto questo e molto altro, in troppi si sono concentrati su un’unica, ossessiva, accusa: occupandosi di tragedie – dicono – è insopportabile e cinica la sua ricercatezza formale. La cura perfezionistica della composizione davanti a un uomo agonizzante è sciacallaggio motivato dal narcisismo e dalla ricerca di fama e premi
Burqa
Che le sue fotografie, scattate in Sudan, Indonesia, Gaza, Romania, Rwanda, Somalia, El Salvador, Iraq, Afghanistan, Nepal, USA, ecc, siano effettivamente strutturate con un risultato compositivo formidabile non ci piove, ma quanto al perché – e questo è il punto – lasciamo parlare lo stesso Nachtwey:
“Non uso gli elementi estetici della fotografia per puro gusto estetico. Non uso quello che sta succedendo nel mondo per fare discorsi sulla fotografia. Uso la fotografia per dichiarare ciò che sta accadendo nel mondo. Io sono un testimone e voglio che la mia testimonianza sia eloquente.”
Una madre veglia sul figlio. Darfur, Sudan, 2003
Ci dice, il fotografo, che se lui si è scelto il ruolo di testimone, deve essere “i nostri occhi” là dove noi non andiamo, e non andando non sapremmo.
Ma nel flusso ingovernabile d’immagini che ci travolge senza filtri, senza sosta e senza qualità, suo compito è anche quello di far sì che le sue fotografie s’imprimano nelle mente di chi le incrocia. Solo così, forse, riusciranno a durare nelle coscienze individuali e in quella collettiva.
Ramallah, Cisgiordania, 2000. In una delle prime manifestazioni della seconda Intifada palestinese, i dimostranti lanciano pietre e molotov contro i soldati, che sparano munizioni vere e proiettili di gomma, a volte letali
Produrre foto iconiche con questa cura è una scelta di comunicazione molto precisa, nella consapevolezza che solo così l’insieme del suo lavoro diventa e resterà “Memoria”.
World Trade Center 2001 collasso della torre sud
Da lì il poi, sta a noi prendere coscienza o voltare le spalle.
La povertà, i senzatetto, la tossicodipendenza, il crimine, l’inquinamento, e poi la guerra e ancora la guerra, le guerre. Perché – ci dice Nachtwey – una foto rivelatrice sulla guerra è, per definizione, una foto contro la guerra.
Mostar, Bosnia ed Erzegovina, 1993. La battaglia per il controllo di Mostar è avvenuta di casa in casa, di stanza in stanza, tra vicini. Una camera da letto è diventata un campo di battaglia
Detto questo, saranno ancora in molti a non fidarsi della buona fede di James Nachtwey, a non perdonargli un talento infinito e un immane spirito di sacrificio al servizio della memoria collettiva che – chissà perché – dovrebbe nutrirsi di foto brutte.
Nachtwey utilizza macchine fotografiche e lenti Canon. Attualmente utilizza una Canon EOS-1Ds mark II per il digitale e una EOS-1V in pellicola. “Non mi importa se le foto siano su pellicola o digitale. Le fotografie sono un prodotto del cuore e della mente. Ma la tecnologia è assolutamente essenziale per la consegna nel giornalismo. Per questo ho ricominciato con il digitale”. Le sue foto, sia scattate in digitale che in pellicola, si caratterizzano per la loro grande forza impattante. Si tratta di scatti monocromi di anime dimenticate che dichiarano guerra alla guerra, raccontando la morte non con il sangue, ma con lo sguardo illuminato di chi è riuscito a sopravvivere. Nel 2001 è stato realizzato un documentario sulla sua storia intitolato War Photographer.
«Se tutti potessero essere lì solo una volta, vedere da soli ciò che il fosforo bianco fa sul viso di un bambino, o quale dolore indicibile è causato dall'impatto di un singolo proiettile o come un frammento di schegge può strappare la gamba a qualcuno - se tutti potessero essere lì per vedere la paura e il dolore, solo una volta, allora capirebbero che non vale la pena lasciare che le cose arrivino al punto in cui ciò accade anche a una sola persona, figuriamoci a migliaia ».
A cura di Emanuele Davi