Da "il Giornale" Offro un milione di euro a chi riesce a replicare i miei quadri fatti di luce
Mario Nicorelli ha applicato all’arte le teorie di Newton: dipinge su rame senza pennelli tutti i colori dell’iride. "Opere immortali. Invece la Gioconda si stingerà"
Fiat lux. Impossessatosi della luce, la tecnica espressiva più vicina alle prerogative di Dio, il maestro (con la emme minuscola) Mario Nicorelli è passato a riordinare il resto del mondo. Ha inventato la lira fiscale che comporta l’abolizione di tutte le imposte dirette e indirette. Ha fondato il Partito costituzionalista italiano. Ha progettato una turbina magnetica che produce energia a costo zero sfruttando il moto perpetuo, da millenni chimera dell’umanità. Ha ideato una parabola di rame in grado di guarire l’80 per cento delle malattie, anche se qui ammette che scienziati e medici dovrebbero approfondire l’argomento. Le premesse, per quanto riguarda il metallo rosso, sono incoraggianti. In 40 anni di solitarie ricerche, il novello Cagliostro è riuscito ad applicare alla sua arte le teorie di Isaac Newton. «Ho creato la scomposizione della luce. Ho realizzato il sogno di Claude Monet e di Vincent Van Gogh. Un milione di euro a chi è capace di fare su rame una copia esatta di un mio quadro o di un mio ritratto fotografico», lancia la sfida. «Per la prima volta nella storia delle arti figurative, sono l’unico al mondo in grado di dipingere col colore sancito dalle leggi della fisica». La sua tavolozza è fatta solo di onde elettromagnetiche. I quadri non hanno bisogno di pennelli ma solo di entrare e uscire in continuazione da un forno. Ogni tonalità è frutto di una temperatura indefinita, che non si presta a duplicazioni. Il risultato finale è irripetibile. «Le mie opere vivranno anche quando La Gioconda sarà stinta dal sole e consumata dal tempo. Sono destinate all’immortalità. Perché le ha fatte la luce». Nicorelli avrebbe potuto ricavarci parecchi quattrini, al pari dei suoi amici Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi, Aligi Sassu, Agenore Fabbri, Wilfredo Lam, Emilio Vedova che frequentava negli Anni 50 in Liguria. Invece, dopo un’esistenza trascorsa con la schiena curva su olii, acquerelli, acqueforti, disegni, xilografie, acquetinte, encausti e sbalzi in rame, ebbe la dabbenaggine di affidarsi al più improbabile intermediario che mai abbia rappresentato un artista: il fornaio Antonio Rebecca di Oderzo. «Era il 1976, esponevo a Milano in via della Spiga. Il mecenate, editore d’arte e gallerista Guido Cancelli venne apposta da Torino per vedere la mia scomposizione della luce. “Compro in blocco tutte le opere esposte, gliele pago 700.000 lire l’una”, disse. Erano una quarantina. Per darmi un po’ di tono, gli risposi: deve parlarne col mio agente. E sa che fece il panettiere? Rifiutò!». Formidabile dissipatore di genio e di ricchezza, ormai vicino ai 78 anni, oggi Nicorelli abita con la seconda moglie, dalla quale ha avuto l’ultimo dei suoi cinque figli, in una dimessa casetta nella zona di Motta di Livenza, nel Trevigiano, anziché in un villone sulla Riviera di Ponente. Ma non si compiange: «Ero andato anche a Venezia, a chiedere ospitalità alla celebre collezionista Peggy Guggenheim. Mi metta a disposizione una stanza dove poter insegnare la scomposizione della luce ai ragazzi, le chiesi. “Yes, yes, mister Nicorelli”. E invece mi ha solo preso in giro. Ma che m’importa? Io resto in costante contatto con i miei tre maestri: Leonardo da Vinci, Isaac Newton e Federico García Lorca. Dal primo ho imparato che per diventare artista non basta fare uno scarabocchio sulla tela e incorniciarla: bisogna essere pittore, scultore, inventore, poeta, musicista e padre di famiglia, non come Picasso, maledetto lavativo, che sputava sui quadri e ha dato licenza ai suoi figli di drogarsi. Col secondo ho superato ostacoli che sembravano insormontabili. Il terzo è il più grande, quello che col Compianto per Ignacio Sánchez Mejías mi ha fatto diventare uomo: “Un ragazzo portò il lenzuolo bianco alle cinque della sera”». Nicorelli scoprì la sua vocazione artistica nel primo dopoguerra. «Tutta colpa di quel bastardo di Togliatti, che ci lavava il cervello». Diciassettenne, aveva appena finito la terza avviamento, «otto anni dai preti all’istituto Oneto di Novi Ligure, dove sono nato». Per la sua voce celestiale lo facevano cantare in chiesa ai funerali dei ricchi. Una volta si esibì anche al dopolavoro delle acciaierie Ilva accanto a Claudio Villa. «Pensavo tutto il giorno a Beethoven. Finché lessi sull’Unità che in Urss i figli del popolo potevano imparare gratuitamente a suonare il pianoforte. Così presi la tessera del Pci e la notte seguente, alle 2, scappai di casa. Destinazione Mosca». Non poteva consultare l’atlante? Da Novi Ligure saranno 3.000 chilometri. «Nel pomeriggio avevo comprato una bicicletta a rate, che non avrei mai pagato. La mattina seguente, giunto a Milano, vendetti la bici a un barista e presi il treno per la Jugoslavia. Fui catturato dai titini in un bosco vicino a Opicina. Tirai fuori la tessera da comunista. “Dobro, dobro, tovaritch”. Mi fecero camminare sulle pietre del Carso, una maledizione di Dio, fin giù a Capodistria. In galera volevano che sottoscrivessi una dichiarazione in cui confessavo d’essere stato mandato lì dal Pci per fare la spia. Mi guardai bene dal firmare». E che accadde? «Per sei giorni filati, tra le 4 e le 5 del mattino, mi portarono giù in cortile, spalle al muro, insieme con i prigionieri cetnici. Il plotone d’esecuzione sparava agli altri e lasciava vivo me. Poi il comandante, scavalcando i cadaveri, arrivava con la dichiarazione da firmare. E io ogni notte a dirmi: domani è il mio turno, all’alba mi ammazzano. Invece ogni volta vedevo cadere crivellati di colpi solo i cetnici. Alla fine si convinsero che non ero una spia e fui mandato ai lavori forzati a Kocevje, in miniera, 800 metri sotto terra. Dopo cinque anni di stenti riuscimmo a fuggire in tre. Degli altri due non ho più saputo nulla, ricordo soltanto gli spari dei nostri aguzzini che c’inseguivano. Credo che siano stati uccisi». Come ritornò a casa? «Con la stessa maglia con cui ero partito. Cinquecento chilometri a piedi. M’ingegnai come manovale nei cantieri, anche se avevo le vertigini, e come proto di tipografia. Fino a diventare sbalzatore di rame e pittore. Adesso lei mi manda qui un allievo: dopo tre giorni sa dipingere meglio di Michelangelo». Modesto. «Se ne accorsero subito gli artisti che frequentavano la trattoria Pescetto di Albisola. Sassu mi raffigurò con in testa il basco da pittore in uno dei pannelli delle Cronache di Albisola, l’opera lunga 35 metri che aveva fatto per il ristoratore. Ma come? Fontana con le sue tele tagliate e Capogrossi con i suoi forchettoni policromi mangiavano a sbafo e io dovevo morire di fame? La vede quell’Ultima cena appesa al muro? Ci sono 300 milioni di colpi di bulino là dentro. Se la loro era arte, la mia che cos’era? Così decisi di dipingere su rame un falso Capogrossi con la mia tecnica di colore. Pescetto capì subito il mio valore e m’invitò a una collettiva. Mi presentai con un Cristo. Per ritrovarmi accanto alla Merda d’artista inscatolata da Piero Manzoni. Ma fatemi il piacere! L’unico intelligente era Lucio Fontana». Perché? «Perché lui almeno aveva l’umiltà di dirmi: “Scomporre la luce è un bel sogno, Mario, ma difficile da realizzare”. Ci ho perso la vita, dietro questo sogno. E alla fine l’ho realizzato. Fontana fu l’unico a intuire che prima o poi ci sarei arrivato, tanto che mi regalò i bozzetti preparatori dell’Apparizione del Sacro Cuore a Santa Margherita Alacocque, il bassorilievo in ceramica che aveva eseguito per la chiesa di San Fedele a Milano, quella che sorge dietro Palazzo Marino. Ma io, bestia che non sono altro, dopo due ore avevo già venduto quegli acquerelli a un dentista appassionato d’arte. Se li avessi oggi, sarei milionario». Come mai alla fine si staccò da Fontana, Capogrossi e Sassu? «O facevo il bidonista o facevo l’artista. Per fare il bidonista avevo delle qualità abbastanza buone, per fare l’artista nessuna. Dovevo distinguermi da quest’arte che hanno il coraggio di chiamare contemporanea pur continuando a servirsi delle terre colorate usate da Giotto 700 anni fa. Almeno il grande fiorentino se le faceva e se le mescolava da solo. Questi invece usano i colori industriali. Nel ’700 era considerata un’abilità indispensabile del pittore fare un ritratto come Dio comandava. Ma oggi, con le tecniche fotografiche di cui disponiamo, il ritratto è ancora arte? No, è mestiere. A meno che non sia fatto con una tecnica contemporanea. L’uomo spezza l’atomo, costruisce la bomba atomica e va sulla Luna. Nicorelli domina l’atomo, inclina i cristalli del rame e dipinge. L’arte figurativa tradizionale ha finito il suo corso: serve soltanto a coprire i muri nelle case dei ricchi». Mentre il rame? «Realizza il sogno del soleil levant di Monet, degli impressionisti che pitturavano all’aperto e mettevano i puntini di colore uno accanto all’altro nel tentativo impossibile di dipingere la luce. Ecco, nei miei quadri ci sono riuscito: i colori cambiano a seconda dell’incidenza della luce. Mi trovi lei un olio su tela che proietta l’immagine sul muro, come fanno i quadri di Nicorelli». In che modo c’è arrivato? «Da sbalzista avevo imparato a mie spese che il rame, battendolo, diventa sempre più duro, per cui dovevo metterlo nel forno a 250 gradi per renderlo duttile. E lì vedevo che prendeva tutti i colori dell’iride: prima diventava arancione, poi, a mano a mano che la temperatura saliva, rosso, celeste, blu scuro e avanti così, fino al verde. A quel punto ho pensato di trattare le lastre di rame con un acido di mia invenzione che non le intaccasse, in modo da far apparire il colore desiderato soltanto nei punti decisi da me. Neanche i computer della Nasa possono programmare una tecnica del genere. Col calore direziono i cristalli del rame come voglio io, non come vuole Dio, cosicché in quel punto, secondo le leggi di Newton, il cristallo mi restituisce un’onda elettromagnetica ben precisa. Per ogni colore la lastra va ripulita, si ripete la resinatura e si ricomincia il ciclo nel forno. Basta un granellino di polvere e l’opera è da buttare». E che cosa le fa pensare che le onde elettromagnetiche emesse dal rame possano guarire l’80 per cento delle malattie? «Il buon senso. Senza la luce, nel mondo non vivrebbe nulla. Ergo, chi s’impadronisce della luce governa la vita». Un’affermazione indimostrabile. «Basta inclinare i cristalli del rame tutti nel senso di un unico colore. L’esposizione prolungata a un raggio laser, che pure è in grado di riparare il distacco della retina, non può forse bucare il corpo umano? Allora mi chiedo: che cosa farà l’onda elettromagnetica del giallo, del verde, dell’azzurro ai tumori della pelle? Io non posso dirlo, non sono un medico. Ma è una sperimentazione che va fatta». Come quella della lira fiscale? «Discorso complesso, che prevede l’uscita dall’euro. Non si può spiegare in due parole. Le banconote non hanno alcun valore intrinseco e nessun cittadino può pretendere dallo Stato la loro conversione in oro, siamo d’accordo su questo? Però lo Stato funge da garante. Allora perché non gratificarlo con una percentuale per questo avallo? Diverrebbe l’unica tassa esistente in Italia, destinata a soppiantare Irpef, Ires, Irap, Ici, Iva, imposte di registro e catastali, marche da bollo, contributi previdenziali, assicurazioni obbligatorie. L’ho chiamata tassa sul capitale liquido dello Stato». Poetico. Continui. «Prendiamo 1.000 lire. Sul retro della banconota saranno stampati i giorni dell’anno, numerati alla rovescia: dal 1° gennaio, 365, al 31 dicembre, 1. Il valore nominale andrà moltiplicato per il numero del giorno corrispondente. Quindi il 1° gennaio quelle 1.000 lire varranno in realtà 365.000 lire, il 2 gennaio 364.000. Ogni giorno la lira fiscale perde un 365° del suo valore: è quella l’unica tassa che incamera lo Stato. Il quale, nella notte tra l’1 e il 2 gennaio, potrà stampare altre 1.000 lire senza creare inflazione, poiché il valore in oro nelle proprie casse sarà rimasto inalterato. Entro la fine dell’anno lo Stato avrà incassato il 100 per cento del denaro emesso e circolante. La banconota nelle mani del cittadino, pur avendo perso tutto il suo valore, diverrà un’azione di quella società per azioni che è lo Stato stesso. Gli eventuali utili saranno ridistribuiti dalle banche, ovviamente nazionalizzate». Magnifico. Dovrò parlarne col ministro Tremonti. «Rida, rida pure. Come fa a non capire che, svalutandosi giorno per giorno, la lira fiscale diventa l’unica tassa a carico del cittadino? Un rapinatore non compila certo la denuncia dei redditi: ma sul miliardo che ruba, già dal giorno dopo comincia a pagare la tassa, gli piaccia o no. Idem mafiosi, tangentieri e puttane. Si vedrebbero i debitori correre come lepri per saldare i debiti, visto che il denaro liquido diminuirebbe quotidianamente di valore». La lira fiscale è nel programma del suo Partito costituzionalista italiano, per il quale andava a tenere comizi in piazza fino a Pordenone? «Non capisco perché le sembri tanto strana la mia idea quando Renato Guttuso riuscì, da senatore, a farsi approvare in Parlamento una legge su misura che consente a chi ha debiti col fisco di versare quadri e sculture al posto dei soldi. Lo sa che la legge Guttuso dà diritto a farsi rimborsare dallo Stato in contanti l’eventuale differenza fra quanto è dovuto in tasse e il valore stimato delle opere d’arte? In pratica i miei colleghi hanno trovato il modo di vendere i loro quadri all’Agenzia delle entrate! Non le sembra più assurdo questo della lira fiscale?». In effetti... «Nella mia vita avrò ceduto a terzi almeno 25.000 lavori. Negli Anni 60 e 70 facevo mille acqueforti a settimana. Le caricavo in auto, andavo alla Bari Buzzoni di Parma che mi dava 1.000 lire l’una e poi le vendeva in giro per il mondo a 30.000 lire. Tornavo a casa ogni settimana col mio milioncino in tasca, viaggiavo su una Baaghera gialla e lo Stato non vedeva un centesimo. Vogliamo risanare il debito pubblico una volta per tutte? Basta un bel bollo, una semplice marchetta di valore fisso, da apporre dietro ogni opera d’arte esposta nelle case degli italiani, come se fosse la tassa di possesso sul televisore. Dica anche questo a Giulio Tremonti». >>>> Stefano Lorenzetto ilgiornale.it
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